Mentre la Banca Centrale Europea prosegue la sua manovra espansiva abbassando i tassi guida nel tentativo di rilanciare consumi e investimenti, le famiglie italiane si ritrovano a pagare interessi ancora troppo alti su mutui e prestiti. A dispetto di un taglio complessivo di 200 punti base in un anno, il costo reale del denaro per chi accende un finanziamento resta inchiodato su soglie ben più elevate rispetto al passato. Il Taeg medio sui mutui si aggira infatti attorno al 3,6%, con picchi prossimi al 4%, mentre i tassi BCE sono scesi fino al 2%. Una discrepanza che non può essere derubricata a semplice ritardo fisiologico, ma segnala una vera e propria interruzione nella trasmissione monetaria: il meccanismo che dovrebbe trasferire i benefici delle decisioni di Francoforte fino alle tasche dei cittadini si è inceppato.
Mentre la BCE taglia per incentivare il credito e stimolare la crescita, il sistema bancario appare riluttante ad allinearsi e mantiene margini elevati e condizioni restrittive. È un paradosso che ha conseguenze tangibili: riduce il potere d’acquisto, comprime la domanda di immobili, e rallenta la ripresa dei consumi. Ma soprattutto, penalizza chi si trova in posizione più fragile, cioè le famiglie a reddito medio-basso e i giovani alle prese con il primo mutuo.
Le ragioni dietro il disallineamento
Uno dei motivi per cui le banche non allineano i propri tassi a quelli stabiliti dalla BCE va cercato nella percezione del rischio macroeconomico. Il contesto internazionale è ancora attraversato da instabilità geopolitiche, da una crescita debole in molte economie europee e da una fiducia dei consumatori che stenta a consolidarsi. Tutti elementi che portano gli istituti di credito ad assumere un atteggiamento prudente. Nonostante la riduzione del costo del denaro, le banche si mostrano riluttanti a tagliare i tassi sui prestiti per paura di esporsi a un eventuale aumento dei default. In pratica, la politica monetaria perde slancio perché l’elemento psicologico prevale sulla logica di stimolo.
Non va dimenticato che la fase di tassi elevati ha permesso alle banche di recuperare redditività dopo un lungo periodo di rendimenti bassissimi. Il margine di interesse si è ampliato sensibilmente negli ultimi due anni. Questo ha rappresentato un sollievo per i bilanci, ma anche un incentivo a mantenere artificialmente elevato il costo del credito, anche quando i tassi di riferimento iniziavano a scendere. In altre parole, le banche hanno preferito rallentare la trasmissione della politica monetaria per proteggere la propria redditività. Il risultato è uno spread che oggi supera i 150 punti base tra il tasso BCE e i mutui bancari, ben oltre la media storica.
Anche la composizione della domanda di credito ha inciso. Dopo un biennio di stretta monetaria che ha congelato la propensione a indebitarsi, l’allentamento della BCE non ha generato un rimbalzo immediato. Le famiglie sono ancora prudenti, preoccupate dall’inflazione residua, da un mercato del lavoro irregolare e da una dinamica salariale debole. I nuovi mutuatari sono più esigenti e meno numerosi. In questo contesto, le banche non hanno alcun interesse a ridurre i tassi per incentivare la clientela: preferiscono selezionare i beneficiari e mantenere elevati i costi per i profili considerati a rischio. Così, il credito rimane elitario e selettivo e l’obiettivo di rilanciare l’economia attraverso l’accesso al debito viene mancato.
La BCE da sola non basta più
Nonostante la rigidità dei tassi bancari, il mercato immobiliare mostra segnali di ripartenza. Lo stock di mutui erogati è aumentato di oltre 10 miliardi tra maggio 2024 e maggio 2025, segno che l’interesse per la casa resiste. Ma la ripresa è a macchia di leopardo. I mutui crescono mentre i prestiti personali crollano: -7 miliardi in un anno, -28,5 miliardi in tre anni. Si tratta di un calo strutturale, non congiunturale, che testimonia come il credito al consumo, un tempo motore della domanda interna, sia prerogativa di una minoranza selezionata. È un mutamento che ridisegna il mercato e pone interrogativi sull’inclusione finanziaria: sempre meno famiglie possono permettersi di accedere a un prestito e questo limita il potenziale di crescita.
Il fatto che i tagli della BCE non si traducano in tassi più bassi per le famiglie riduce l’impatto della politica monetaria. Il principio per cui abbassare il costo del denaro stimoli il credito e quindi la crescita viene vanificato se le banche scelgono di trattenere i vantaggi. In questo scenario il rischio è che la BCE si ritrovi a predicare nel deserto, incapace di incidere sull’economia reale. Per superare questo stallo, serve un intervento più incisivo dello Stato: maggiore trasparenza sui tassi effettivi, potenziamento del Fondo di Garanzia, incentivi per la rinegoziazione dei mutui a tasso variabile, tutela dei debitori più fragili.
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