Una volta qui era tutto turismo


Nella singolare tenzone politica che si è accesa sul calo delle presenze dei turisti in spiaggia, il problema non è se in alcune località, più o meno di lusso, ci siano più stranieri e meno famiglie italiane o viceversa. In discussione è il modello economico, politico e sociale del paese.

Un paese, il nostro, che ha scelto di diventare una monocoltura industriale, quella turistica e, in generale, del terziario, basato sui servizi poveri.

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Poveri nel senso di salari bassi, tutele sociali declinanti, ma anche di investimenti inesistenti o di incapacità di realizzarli concretamente come sta accadendo con il Pnrr. In questo modello rientra la trasformazione di interi centri storici in luna park per turisti al punto da espellere gli abitanti perché le case non si trovano e gli affitti sono spropositati.

Il turismo è sembrato a molti essere l’ancora di salvezza di un paese che ha scelto, a destra come a sinistra, una strada problematica a una crisi di grande portata. L’Italia, più di altri paesi, ha preso la via di “aggiustamenti strutturali” e di una competizione al ribasso per garantire i profitti, praticando la “svalutazione interna”, cioè tagliando la crescita dei salari reali in moltissimi settori e, in particolare, nei servizi. Una situazione in controtendenza rispetto a quanto è avvenuto in Francia o in Germania dove ci sono stati aumenti cospicui, anche se sono in molti in questi paesi a lamentarsi del mancato adeguamento dei salari all’inflazione che continua a mordere.

Volutamente o no, la “crescita” del turismo, oggi, è ritenuta una soluzione anche perché l’Italia si trova in una spaventosa crisi della manifattura industriale da più di 26 mesi. Gli effetti sono visibili dai dati sulle richieste di cassa integrazione nel settore meccanico e metallurgico aumentati di oltre il 35% rispetto al 2024. Questo significa perdita di salario. Lo stesso che manca a Ferragosto quando non si va in vacanza. Sono tutti problemi taciuti dalla grancassa di governo e maggioranza. Il sostanziale nulla di fatto sull’Ilva è una triste conferma.

In queste condizioni si tende a pensare che la crescita dei servizi poveri possa compensare quanto viene perduto a causa della mancanza di investimenti in ricerca e sviluppo, e in innovazione. Non serve nemmeno leggere gli storici dell’economia per capire che questo non è il rimedio, ma una toppa e nemmeno delle migliori. Gli effetti sono visibili nelle buste paga o sugli scontrini.

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Giorgia Meloni ha uno scopo: mantenere questo modello politico-economico e garantire gli interessi esistenti. Lo fa per mancanza di idee e iniziativa, e anche per il realismo capitalista che la contraddistingue. Nei fatti agisce in una continuità storica che risale a 40 anni e più anni fa. Si spiega così il rifiuto di intervenire sul salario minimo, tardivamente scoperto come tema in Italia o l’insistenza su un “boom” dell’occupazione che ha segnato la crescita del lavoro povero. Non bisogna disturbare le imprese, semmai continuare con gli incentivi a pioggia oppure con gli sgravi fiscali. Il mercato penserà al resto. I postfascisti hanno lavato i panni nel neoliberalismo e oggi li calzano a pennello.

Il livore con il quale Meloni ha difeso ieri questo modello dalle critiche dell’opposizione che hanno messo in dubbio il “suo” successo sul turismo è un apostrofo nazionalista sul Made in Italy. Chi attacca un bene della Nazione, identificata in questo caso con il lettino in spiaggia pagato a caro prezzo, è un nemico. Il melonismo sarebbe invece la garanzia che la Nazione sarà resa «attrattiva» continuando come prima, più di prima. Una domanda andrebbe fatta anche alle opposizioni: giustamente si scagliano contro la volontà del governo che in 1.025 giorni non si è posto il problema della questione salariale. E, quando lo ha fatto con il taglio del cuneo fiscale ha aumentato le tasse a causa del pasticcio del drenaggio fiscale.

Ammettiamo che un giorno le opposizioni vadano al governo. Una volta messo in tasca più salario agli italiani, dove potrebbero spendere questi soldi in più? Nelle spiagge privatizzate oppure rese tutte pubbliche? In affitti fuori dalle città ormai in ostaggio degli affitti brevi o in quartieri ripensati per la vita in comune e il benessere collettivo? C’è tutta una storia politica, industriale e sociale da ripensare quando si sta in vacanza. A maggior ragione se non ce la si può permettere.



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