ANCHE IVECO VA ALL’ESTERO – Odysseo


«L’Italia digerisce tutto, la sua forza sta nella mollezza degli apparati, nella pieghevolezza degli uomini politici, nelle capacità di adattamento degli italiani».

(Gianni Agnelli)

«Torino non è un luogo che si abbandona».
(Friedrich  Wilhelm Nietzsche)

John Elkann, – nipote di Gianni Agnelli che lo indicò  come suo successore a capo dell’intero gruppo delle imprese di proprietà degli Agnelli, –  amministratore delegato della Exor N.V., vende  un’altra impresa strategica del gruppo, vale a dire Iveco: il settore  civile che produce veicoli commerciali va all’indiana Tata Motors e il settore difesa a Leonardo. In totale gli Agnelli (indicando così anche i rami della famiglia in linea femminile), cioè, appunto, Exor, incasseranno 5,5 miliardi di euro.

La notizia detta, e letta, così, appare poco più che un evento interessante per chi spulcia le pagine di economia e finanza dei giornali.

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In realtà, è una di quelle notizie bomba che merita attenzione, riflessione, analisi delle conseguenze.

Senza dilungarsi nella storia dell’impresa che fa capo alla famiglia torinese, il lettore sa che Agnelli è un nome indissolubilmente legato alla FIAT.

Il patriarca, Giovanni, nonno dell’ “Avvocato”,  entrò nel progetto di fondazione della FIAT, che vide la luce nel 1899, per il rotto della cuffia. E non manca chi dice che con losche manovre, compresi alcuni decessi   assai dubbi, finì per appropriarsene e per divenirne il dominus incontrastato.  Consolidò il suo potere durante il ventennio fascista, quando fu nominato senatore.  Mollerà la presidenza a fine conflitto: troppo compromesso col regime mussoliniano per rimanere ancora a capo, col rischio di perderne la proprietà.

Nel secondo dopoguerra, è Vittorio Valletta che prende le redini del comando, poiché l’unico figlio maschio di Giovanni, Edoardo muore tragicamente. Evidentemente, Edoardo è un nome che non porta bene.

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Solo dal 1966, Gianni Agnelli, che intanto ha compiuto 45 anni, si dedica all’azienda di famiglia con alterna fortuna, dovuta anche all’andamento dell’economia in generale, nonché alle relazioni industriali con un forte sindacato assai attivo tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70.

La famiglia “reale” italiana, come gli Agnelli vengono definiti in costanza di repubblica, nel frattempo, diviene la più grande impresa italiana, con interessi diffusi in vari settori, dall’automobile, al calcio (la Juventus), dalle macchine agricole alle assicurazioni: insomma una holding che diversifica l’attività produttiva allo scopo di far fronte, in caso di crisi, agli effetti recessivi di un settore con gli utili maturati in un altro. È una buona strategia che nel contempo si accompagna al dislocamento di alcuni stabilimenti produttivi all’estero. La società torinese  acquisisce così anche l’aspetto di una multinazionale.

Con la crisi degli anni ’80, anche la FIAT ne risente, e lo Stato italiano di più, dovendo “fiscalizzarne” le perdite e sostenerne la cassa integrazione per i dipendenti lasciati a casa.

Poi, nel 1996, dovutosi dimettere, per ragioni statutarie, designa il nipote John Elkann, allora ventenne,  quale “erede al trono”, cosa che avverrà di lì a qualche anno.

La FIAT cambia organizzazione e proprietà. Passa dalla cura Romiti a quella Marchionne.

Intanto si “riorganizza”. Prima con gli americani di Chrysler e poi coi francesi di Stellantis.

Ora la chiamano ex FIAT, ma giusto per questioni di marchio.

Ha chiuso svariati stabilimenti in Italia, ha spostato sede legale e fiscale dove ha più trovato convenienza, lasciando il cerino acceso nelle mani dello Stato italiano che ha subito salassi per l’operazione di socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti in cui FIAT è stata abilissima.

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E tutto questo lo Stato l’ha fatto per salvaguardare l’occupazione. Ma facendone le spese.

Ma oggi che anche la strategica IVECO viene ceduta, cosa potrà accadere?

Con soddisfazione del Governo, il settore difesa, vale a dire la produzione industriale a fini militari, rimane in Italia, poiché, come detto, ceduta  al gruppo Leonardo, seconda nell’UE per dimensioni e fatturato nel settore.  In teoria, questo non dovrebbe comportare né delocalizzazioni, né riduzione del personale.

Invece, fa discutere la cessione alla TATA, gruppo indiano tra i più rampanti nel mercato mondiale degli autoveicoli ed assimilati.

Infatti, in questo caso, le implicazioni sono assai complesse. E non riguardano solo gli stabilimenti produttivi del marchio.

Iveco è una delle ultime grandi aziende di meccanica avanzata che abbiamo in Italia, dopo lo smembramento  di Fiat Auto,  e in Italia ci lavorano 14 mila persone.

Su questi dipendenti TATA ha dato garanzie, a tempo determinato, poiché ha promesso che non realizzerà “alcuna ristrutturazione significativa né chiuderà alcun impianto o sito produttivo di proprietà o utilizzato da Iveco Group come conseguenza diretta dell’unione e, in ogni caso, per la durata degli accordi non-finanziari”. Quindi, nessuna garanzia di lungo periodo.

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L’occulta trappola per l’occupazione italiana sta nell’industria dell’indotto.

“Ci sarebbe un’aggressione feroce a tutti i sub-fornitori di Iveco, che in Italia sono un migliaio, specie al Nord. Tata si approvvigionerebbe in India”. Queste dure parole le ha pronunciate, in un’intervista al Fatto quotidiano del 31 luglio, Giorgio Garuzzo  87 anni, ingegnere piemontese, che ha contribuito a creare e ha guidato proprio IVECO. Tant’è che il vegliardo, profondo conoscitore dell’organizzazione industriale e del funzionamento dei mercati, ha implorato, nella stessa intervista, il governo Meloni di opporsi alla cessione usando il suo golden power per bloccare la vendita, poiché riguardante un settore strategico, allo scopo di difendere gli interessi nazionali. Quegli interessi nazionali che il presidente del consiglio dice di tutelare prima d’ogni cosa (sic!).

Ora, col PIL che si riduce dell’0,1 % nel secondo trimestre 2025, coi salari ridottisi del 9% rispetto al 2021, vogliamo anche un’ulteriore mazzata all’occupazione industriale?

Ricordiamo che dopo l’entrata in vigore dell’euro, l’Italia ha perso svariate industrie importanti, molte delle quali sono finite all’estero. E ha perso molti posti di lavoro. Per conseguenza è scesa la domanda interna che si è riflessa su un’ulteriore riduzione di PIL ed occupazione. Per tacere delle entrate fiscali.

“Se al governo pensano che l’Italia possa vivere di turismo è finita. Peraltro, se il Colosseo lo dessero ai nostri privati, sarebbero capaci di vendersi anche quello …” ha chiuso l’intervista  assai amareggiato l’ingegner Garuzzo. Che conosce bene l’avidità di Elkann (“l’unica ragione sono i soldi”), e dei privati più in generale.  Sa quanto siano imbelli i nostri politici.  E dispera per il futuro.

Onestamente, pare assai difficile dargli torto.

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