Dazi e sussidi, sovranisti a casa loro


L’accordo dell’Europa con gli Stati uniti sui dazi al 15% fa discutere. Non intendiamo scivolare sul crinale del «chi ha vinto?», poiché le future variabili saranno molteplici. Vorremmo invece riflettere sull’incongruenza da parte del governo italiano, e ci pare di Confindustria, sebbene con motivazioni e osservazioni più articolate, nel sostenere al contempo la «sopportabilità» di tale accordo e la necessità di aiuti alle imprese che verranno colpite.

Gli industriali parlano della necessità di un «piano straordinario» in considerazione della svalutazione in corso del dollaro che rappresenterebbe un ulteriore costo aggiuntivo di circa 13 punti percentuali.

Cessione crediti fiscali

procedure celeri

 

L’Italia rappresenta una quota rilevante dell’export continentale verso Washington: nel 2023 era seconda in Europa con 67,3 mld di euro dietro la sola Germania (157,7 mld). Tale quota fa chiedere a Meloni un fondo europeo dove prevedibilmente la partecipazione italiana non potrà che essere rilevante.

Per azzerare l’effetto dazi occorrerebbe girare circa 10 miliardi l’anno di soldi pubblici (presi dalla fiscalità generale) alle aziende esportatrici italiane così che queste possano non aumentare il prezzo dei propri prodotti (al netto della svalutazione del dollaro). L’effetto concreto sarebbe prendere 10 miliardi dalla fiscalità tricolore per regalarli alle casse statunitensi.

Tradotto: gli italiani dovrebbero finanziare i consumatori statunitensi per consentirgli di continuare ad acquistare prodotti nostrani agli stessi prezzi. Operazione che, se generalizzata, renderebbe politicamente indolore la scelta di Trump, anestetizzandone le controindicazioni. Ridurrebbe, infatti, il rischio di inflazione a casa propria, otterrebbe un aumento delle entrate fiscali che gli servirebbero per ridurre il debito e/o ridurre le tasse ai ricchi.

I dazi finirebbero per tradursi in un’operazione vincente per Washington, che non pagherebbe alcun costo, neppure in termini di consenso. Un invito a rilanciare sulla politica dei dazi, poiché tutta a spese nostre. Tanto più che nel breve-medio periodo sarà molto complicato che le aziende americane possano sostituire la maggior parte delle importazioni europee. Senza ulteriori ritorsioni Usa (che non si possono certo escludere) per ora l’impatto reale per le imprese potrebbe essere modesto.

Conto e carta

difficile da pignorare

 

La miopia di tale impostazione non finisce qui.

Considerando che l’export italiano è un settore trainante compensare le imprese che sarebbero penalizzate dai dazi potrebbe significare aiutare aziende, per fare solo degli esempi, come Ferrari o Campari, che di affari negli Usa ne fanno parecchi e che di aiuti certo non hanno bisogno. Eppure non si parla di sussidi mirati e circoscritti che sarebbero più comprensibili.

Inoltre, quali distorsioni (per non dire truffe) genererebbe questo approccio? Altro che superbonus per l’edilizia!

Se la politica protezionista statunitense è ritenuta così sbagliata bisognerebbe contrastarla costruendo un contesto capace di favorire il sottrarsi ai ricatti di Trump. Dovremmo investire in nuove relazioni commerciali con paesi ugualmente colpiti dai dazi, dal Canada al Brasile; ipotizzare piani per scommettere su nuove produzioni e nuovi mercati; scommettere su scelte ecologicamente sostenibili per sottrarci alla dipendenza e alle minacce energetiche.

Si potrebbe accrescere la domanda interna, magari sostenendo quei salari colpiti duramente dalla recente inflazione o investendo in scuola, ricerca e mobilità sostenibile. Invece l’Italia si caratterizza immediatamente per confermare un modello traballante fondato su bassi salari e pochi investimenti, un modello «facile» a cui ci riteniamo inchiodati, incentrato sulla competizione dei costi che per reggere necessità persino della mano pubblica.

Insomma, l’Italia degli aiuti alle imprese finirebbe per puntellare il sovranismo a stelle e strisce attingendo direttamente dalle nostre tasche. Una scelta piuttosto originale per chi si ritiene paladino degli interessi nazionali.



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