Meloni spinge la difesa fatta in casa: 42 miliardi già stanziati, ma ora serve una regia unica




Ultim’ora news 2 agosto ore 9

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La macchina del riarmo nazionale è già partita ma serve una regia. E non solo perché nel 2024 l’Italia è riuscita a rispettare gli obiettivi Nato, destinando il 2% del prodotto interno lordo in difesa. Né perché lo scorso anno ha venduto armi per 7,69 miliardi. Da quando la destra di Giorgia Meloni è misalita al governo, il Parlamento ha autorizzato l’acquisto di sistemi d’arma per oltre 42 miliardi di euro, di cui 15 già impegnati in modo vincolante. 

I numeri, diffusi dall’osservatorio indipendente Milex, evidenziano che in poco meno di tre anni, il ministro Guido Crosetto ha portato all’approvazione delle commissioni Difesa di Camera e Senato ben 46 programmi di riarmo: 37 ex novo e 9 aggiornamenti di programmi già operanti.

Programmi che, nei prossimi tre anni, graveranno sul bilancio dello Stato per oltre 3,5 miliardi di euro: 1,1 miliardi nel 2025, 1,04 nel 2026 e 1,4 nel 2027. Ma è solo l’inizio: «L’impegno finanziario pluriennale oggetto del singolo schema di decreto copre solo una porzione del costo complessivo, ma si spalma su un cronoprogramma che ha una durata prevista di dieci o quindici anni in media», si legge nel rapporto. Ciò significa che i 3,5 miliardi sono un acconto e che la vera nota spesa arriverà più in là.

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La sfida europea 

A questa corsa nazionale si affianca ora una nuova sfida tutta europea. Con l’adozione a maggio del regolamento Safe (Support for Ammunition, Joint Procurement and European Defence Empowerment Facility, ndr), l’Unione Europea ha creato la più ambiziosa piattaforma di procurement militare mai varata: 150 miliardi di euro, tra prestiti e garanzie, per rafforzare la base industriale della difesa, coordinare gli acquisti e stimolare la produzione comune.

Anche l’Italia, all’ultimo minuto, vi ha aderito. E ha chiesto ben 14 miliardi da impiegare nei prossimi cinque anni, da restituire con rate diluite nell’arco di 45 anni. Manca ancora, però, una struttura in grado di gestire e coordinare operativamente le risorse.

Cos’è Safe e come funziona  

Safe non funziona come un classico fondo a gestione diretta: non assegna sovvenzioni automatiche, ma aggrega risorse da vari strumenti europei (InvestEU, il Fondo europeo per la difesa, Horizon, perfino il Pnrr) che devono poi essere mobilitate attraverso progetti concreti. E per farlo, servono soggetti attuatori: enti pubblici, veicoli finanziari o consorzi industriali in grado di selezionare, accompagnare, e rendicontare gli investimenti.

A rendere tutto più complesso è il fatto che Safe non è propriamente un meccanismo di finanziamento nazionale. La sua logica è cooperativa: per accedere ai fondi, gli Stati che hanno fatto richiesta devono presentare progetti condivisi, che prevedano appalti comuni tra almeno due Paesi.

Il motivo è semplice: rafforzare la base industriale europea e creare economie di scala, proprio come indicato dal Rapporto Draghi. Solo in via transitoria, si legge sul sito del Consiglio europeo, sono ammessi progetti mono-nazionali, «in risposta all’attuale situazione geopolitica e all’urgente necessità di ingenti investimenti in materiali di difesa».

L’esempio di Francia e Germania

La richiesta italiana, per il momento, sembra prevedere un utilizzo mirato dei fondi: finanziare i programmi di difesa già pianificati per il periodo 2026-2030 e «alleggerire il bilancio dello Stato» spostando la maggior parte delle spese militari sotto l’ombrello dei prestiti a lungo termine di Safe, riducendo l’impatto immediato sul deficit. Francia e Germania, dal canto loro, si stanno muovendo in maniera più strutturata e più programmata.

Formalmente la responsabilità politica e strategica rimane al ministero della Difesa, ma i regolamenti europei (come appunto lo Step, che norma Safe) consentono agli Stati membri di nominare istituzioni pubbliche o veicoli finanziari in grado di selezionare, accompagnare e rendicontare gli investimenti militari.

Parigi sta coinvolgendo per questo ruolo Bpifrance, la banca pubblica per lo sviluppo, che già nel 2024 aveva attivato un fondo «Difesa e Sovranità» a sostegno di tecnologie strategiche, che opera come veicolo d’interfaccia tra imprese nazionali e Commissione. Berlino ha individuato invece in KfW, l’istituto federale di sviluppo, di strutturare una nuova piattaforma finanziaria per la difesa, integrata con i programmi europei. Entrambe le istituzioni sono già riconosciute da Bruxelles come potenziali «natural implementing partners».

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L’ipotesi Cdp

L’Italia non ha ancora coinvolto alcun veicolo nazionale, né indicato un soggetto incaricato del coordinamento. Ma il candidato idoneo sembrerebbe già esserci. A livello informale, come confermato a Milano Finanza, l’esecutivo avrebbe però avviato un dialogo con Cassa Depositi e Prestiti, che starebbe studiando i dossier. Non c’è ancora un mandato operativo, ma da Bruxelles verrebbe considerata una scelta «coerente» con quanto stanno facendo altri Stati membri.

D’altronde Cdp, proprio nel mese di giugno, ha firmato l’accordo di Varsavia con la Bei e gli istituti di promozione di Francia, Germania, Polonia e Spagna per rafforzare la cooperazione e il coordinamento a sostegno dell’industria europea della sicurezza e della difesa. La combinazione tra impegni nazionali e opportunità europee rende evidente la necessità di una governance. Ma senza un soggetto in grado di coordinare la spesa e misurare l’impatto industriale degli investimenti, l’Italia rischia di non capitalizzare il momento. (riproduzione riservata)



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