di ANTONIO GOZZI
Si fa un gran parlare della necessità per l’Europa di accelerare su processi di digitalizzazione e di applicazione dell’Intelligenza Artificiale (IA) al fine di recuperare il grande gap che ci separa su questo terreno dagli USA e dalla Cina.
Il ragionamento si inserisce in una riflessione più ampia sull’autonomia strategica e sulla sovranità tecnologica dell’Unione Europea, messe in pericolo dalla velocità con la quale le altre grandi economie del mondo procedono sull’innovazione con investimenti enormi anche in Ricerca e Sviluppo, consolidano il primato di grandi e grandissime aziende impegnate sull’IA, hanno la disponibilità di risorse umane super qualificate che sorreggono le traiettorie di sviluppo.
Se si guarda ad esempio alla dotazione di risorse umane delle grandi imprese statunitensi di IA si scopre che le stesse non esisterebbero se non potessero disporre di decine di migliaia di ingegneri, matematici, fisici ed informatici cinesi e indiani attratti dal “sogno americano”.
Abbiamo scritto poche settimane fa su queste pagine delle iniziative in corso a livello di Commissione e Parlamento europei su questo tema, e sulla necessità di convogliare e raccogliere ingentissime risorse finanziarie pubbliche e private, che per ora non ci sono, su un progetto di diffusione nel nostro continente della digitalizzazione e dell’IA (leggi qui).
Oggi vorrei occuparmi di applicazione dell’IA alla manifattura italiana e ad alcune grandi questioni connesse.
Ricordo ai nostri lettori che la manifattura industriale consente all’Italia di essere il quarto Paese più esportatore del mondo dopo Cina, Usa e Germania; nel 2024 su 1200 miliardi di euro di fatturato ne abbiamo esportato più della metà (circa 630 miliardi)!
In assenza di svalutazioni competitive della moneta, che con l’Euro non esistono più, dati di questo tipo, che probabilmente si ripeteranno anche quest’anno nonostante i dazi di Trump, testimoniano un vantaggio competitivo puro della nostra industria manifatturiera.
Ma il vantaggio competitivo oggi c’è e domani potrebbe sparire, anche insidiato dalle esportazioni cinesi sempre più aggressive in termini di prezzo e di varietà di prodotti, perché molte volte sostenute da aiuti e sovvenzioni dello Stato. Nei confronti di queste esportazioni cinesi, che stanno crescendo molto anche in Italia, l’Europa non riesce e/o non vuole difendersi, avvolta com’è in una cultura mercatista e anti-industriale, convinta che la sua forza discenda soltanto dall’essere il più ricco mercato del mondo e non dalla sua industria.
Per quanto ci riguarda, la manifattura italiana, il made in Italy, vede le sorgenti del proprio vantaggio competitivo nella qualità dei prodotti, nel design e nello stile degli stessi, nella flessibilità e nella capacità di adattamento alle turbolenze del commercio internazionale specie in questa fase, oltre che nell’intensità delle gestioni aziendali.
Il savoir fare della nostra manifattura è una risorsa immateriale, fatta di cultura e di esperienze e conoscenze profonde detenute dalle persone che vi lavorano e che, in molti casi, si avvicinano alla soglia della pensione. Il passaggio di questo patrimonio conoscitivo alle giovani generazioni non è esercizio semplice né scontato.
Ma riuscire a patrimonializzare e a mantenere queste conoscenze ed esperienze, questo savoir faire, continuando a migliorarli in un processo innovativo e creativo è strategico per il futuro della nostra forza competitiva e per l’attrattività dei nostri prodotti.
L’IA potrebbe essere uno strumento fondamentale al riguardo e l’Italia, con la diversificazione del suo sistema industriale e delle sue filiere manifatturiere, rappresenta un campo di applicazione verticale straordinario. Non a caso le grandi multinazionali dell’IA vedono la manifattura italiana come un potenziale grande mercato e sono commercialmente all’attacco per vendere le loro applicazioni.
Ma qui si pone il grande problema della protezione e del controllo proprietario del know how aziendale passato all’IA. La questione era già sorta una decina di anni fa con la migrazione sul cloud dei data base delle nostre aziende e hi come me aveva sollevato riserve e dubbi sul trasferimento di dati aziendali sensibili, per non dire strategici, come clienti e prezzi, ad ambienti fuori dal controllo aziendale, era stato tacciato di oscurantismo.
Naturalmente ai dubbi e alle obiezioni sollevate il mainstream delle multinazionali, americane soprattutto, rispondeva con i benefici di efficienza, accessibilità, scalabilità e di riduzione di costi che il nuovo strumento del cloud consentiva.
Oggi colpisce leggere nei documenti ufficiali dell’Unione Europea che la migrazione dei data base delle nostre imprese sul cloud ha indebolito la sicurezza e l’autonomia strategica europea. La tecnocrazia guardiana e autoreferenziale di Bruxelles si sveglia sempre troppo tardi.
Cerchiamo di non ripetere l’errore con le applicazioni dell’IA.
Naturalmente i timori non riguardano la digitalizzazione di tutte le attività banali e a basso valore aggiunto. Ma là dove c’è vantaggio competitivo basato sulla conoscenza bisogna stare particolarmente attenti perché non vogliamo che attraverso intelligenze artificiali connesse in tutto il mondo il know-how del made in Italy finisca altrove, magari a Shangai, perché saremmo morti.
Non è solo una questione di competitività della nostra manifattura ma, tenuto conto della sua importanza economica, è un problema di sicurezza nazionale.
Bisogna lavorare su modelli proprietari e di sicurezza delle conoscenze passate all’IA e questa è la vera sfida da affrontare in futuro per il sistema industriale italiano.
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