Le agevolazioni fiscali non bastano più. I bonus pensati per riportare in Italia i talenti emigrati stanno perdendo efficacia, mentre la “fuga dei cervelli” continua a erodere il capitale umano del Paese. Sotto la lente (se mai ci fosse il bisogno di rimarcarlo) le criticità di un sistema di incentivi ormai in fase calante, aggravato da una recente stretta normativa motivata da esigenze di equità e sostenibilità della finanza pubblica.
Già prima della riforma del 2023, il meccanismo mostrava segni di cedimento. Alla fine dello scorso anno i beneficiari delle agevolazioni fiscali erano poco più di 44mila: una cifra che rappresenta meno del 10% dei circa 550mila giovani italiani tra i 18 e i 34 anni che, tra il 2011 e il 2023, hanno scelto di trasferirsi all’estero. Un dato che racconta di un’Italia incapace, finora, di invertire una tendenza che pesa non solo sul mercato del lavoro, ma sull’intero equilibrio demografico del Paese.
La questione è ormai centrale nel dibattito politico. L’emorragia di giovani qualificati alimenta infatti una crisi demografica già grave, segnata da un tasso di natalità in costante calo e da un inesorabile invecchiamento della popolazione.
Per contrastare questa deriva, il governo sta valutando nuove misure. Tra le ipotesi allo studio, l’azzeramento dei contributi per tre anni alle imprese che assumono giovani under 30 e l’introduzione di una flat tax al 5% per i neoassunti con reddito fino a 40mila euro. Proposte ambiziose, che però da sole potrebbero non bastare a invertire la rotta.
Se l’Italia vuole davvero tornare ad attrarre i suoi talenti all’estero – e convincere quelli ancora in patria a restare – serve un approccio più strutturale: non solo sgravi fiscali, ma anche politiche per il lavoro stabili, un sistema universitario competitivo, servizi efficienti e un clima culturale capace di valorizzare il merito. I bonus possono essere una spinta, ma senza un cambiamento più profondo rischiano di restare solo un cerotto su una ferita che continua a sanguinare.
Però, cosa aspettarsi dalla classe dirigente di un Paese che parla di riforme pensando che l’aumento o la diminuzione di un punto percentuale di IRPEF possa fare la differenza?
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