Nell’Ue, persino il Cancelliere tedesco Friedrich Merz – che in un primo momento aveva visto nei dazi al 15% un vantaggio per l’industria automobilistica del suo Paese in forte crisi ed inizialmente minacciata dal fardello del 27,5% sulle quattro ruote – ha rapidamente cambiato posizione prevedendo «danni considerevoli» all’economia.
Ma non può gioire neppure Giorgia Meloni, che infatti, dopo il comunicato di governo abbastanza positivo che era stato diramato da Palazzo Chigi la notte di domenica 27 luglio, nelle ore successive ha raffreddato il giudizio annunciando che «nei dettagli su alcune cose c’è ancora da battersi» e sperando nelle esenzioni di alcuni settori.
Sui dazi, da tempo la premier aveva fatto un passo indietro, lasciando tutta la scena alla presidente della Commissione europea, non solo perché Bruxelles aveva titolo di trattare con la Casa Bianca sull’argomento, sia pure preferendo, prima dell’incontro Trump-Von der Leyen in Scozia, un livello non altissimo: era stato mandato avanti solo il commissario per il commercio Maros Sefcovic. Da parte di Meloni, la rinuncia ad un protagonismo sulla revisione dei rapporti commerciali nasceva dalla crescente difficoltà di costruire «il ponte» fra le due sponde dell’Atlantico, che è stato il mantra di Palazzo Chigi in tutti questi mesi. Neppure una trattativa diretta con Trump, caldeggiata da Matteo Salvini, è stata realisticamente ritenuta praticabile. Alla fine, non ha insistito la stessa Lega. E, dentro il governo, ora c’è persino chi rimpiange l’ex candidata democratica alla Casa Bianca Kamala Harris : «Con lei avremmo forse avuto meno problemi», sospira il ministro di Forza Italia, Gilberto Pichetto Fratin.
Ma, nel momento in cui non solo tutte le opposizioni (da Calenda a Fratoianni) definiscono gli accordi scozzesi un danno per l’Europa e per l’Italia attaccando la premier filo-trumpiana, ma anche gli analisti dell’Ispi descrivono quanto avvenuto «nella sala da ballo di un resort golfisti di Turnberry» nientemeno che «una delle pagine più umilianti dell’Unione», Meloni lascia che a portare la croce sia Ursula. Alla quale si chiede anche l’attivazione di «misure di sostegno» alle imprese italiane «che dovessero risentire particolarmente delle misure tariffarie statunitensi», si legge nella dichiarazione comune Meloni-Tajani-Salvini. Dove Bruxelles viene incalzata anche per «semplificare le nostre regole, tagliare la burocrazia, diversificare le relazioni commerciali e ridurre le nostre dipendenze». Richiesta che riflette le rimostranze leghiste nei confronti di un’Unione europea ritenuta dannosa per tanti settori del nostro Paese, non meno dannosa del protezionismo trumpiano.
Tracciando a caldo un bilancio per La Repubblica, Paolo Gentiloni ha osservato che quanto all’Italia «non si può dire che abbia esercitato una particolare influenza in questa vicenda, né in negativo – non ha rotto la solidarietà Ue – né in positivo – non ha indotto Trump a più miti consigli». Il governo «si è allineato, perfino più di altri, alle posizioni di Bruxelles. Speriamo – sono ancora parole dell’ex commissario – che ora non subentri la logica dello scaricabarile sulla Ue, magari per nascondere di fronte alle imprese e alle famiglie italiane i danni provocati dall’amico Donald Trump».
Del resto, nell’avallare la moderazione della Commissione e anche della Cancelleria tedesca davanti alle richieste di Trump, a partire da quella dei dazi al 30% utilizzati dal presidente statunitense come arma negoziale ma per arrivare ad un risultato che è comunque pesante per l’Europa, Meloni ha seguito una linea morbida che esce sconfitta in Scozia. C’è l’argomento che una posizione dura avrebbe fatto naufragare del tutto l’accordo con gli Stati Uniti riportando la trattativa alla posizione di partenza con la minaccia trumpiana del 30, ma non si può neppure escludere che una maggiore fermezza –quella invocata da Emmanuel Macron con la proposta di «contromisure immediate» già il 13 luglio – avrebbe potuto indurre il tycoon ai più miti consigli di cui parla Gentiloni.
A differenza di Carlo Calenda che si «vergognava» di essere europeo dopo che Von der Leyen aveva fatto «la figura della scolaretta» davanti a Trump, ancora nella nota di Palazzo Chigi della “domenica dei dazi” , si esprimeva soddisfazione perché sarebbe stata «evitata la trappola di chi chiedeva di alimentare uno scontro frontale fra le due sponde dell’Atlantico».
Invece, il fallimento della trattativa europea segna il riscatto del presidente francese. Ma tutto si radicalizza. La mancata fermezza rischia di destabilizzare politicamente i singoli Paesi europei, alle prese con le categorie economiche che si vedono colpite (si pensi solo ai produttori di vino in Italia ed anche al sistema agro-alimentare nel suo complesso). «È impossibile ragionare con Trump», commenta, in una regione governata dal centro-destra e che in autunno si recherà alle urne Raffaele Boscaini, presidente di Confindustria Veneto. «Disgrazia insormontabile per alcune aziende», gli fa eco dalla Puglia (altra regione con le elezioni che si avvicinano), il collega Sergio Fontana. Il punto è se sarà sufficiente –davanti ad un export previsto dal presidente della Confindustria Emanuele Orsini in calo per oltre 22 miliardi – concedere alle imprese compensazioni finanziarie e soprattutto con quali risorse. Bruxelles, pensaci tu.
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