Sta facendo molto discutere l’impugnazione della legge regionale della Toscana che applica il salario minimo negli appalti pubblici da parte del Consiglio dei Ministri: ecco cosa è accaduto e quali possono essere gli scenari futuri.
Il 4 agosto 2025, il Consiglio dei ministri ha deliberato l’impugnazione, dinanzi alla Corte costituzionale, della legge della regione Toscana n. 30 del 18 giugno 2025. La norma, approvata a maggioranza dal Consiglio regionale, prevede che, nell’ambito dei bandi pubblici regionali ad alta intensità di manodopera, sia riconosciuto un punteggio premiale alle imprese che applicano un trattamento economico minimo orario non inferiore a nove euro lordi ai propri dipendenti. Un provvedimento che è stato applicato in realtà non solo in Toscana, ma anche altrove: si pensi al caso emblematico del Comune di Genova.
Il Governo ha ritenuto la legge costituzionalmente illegittima, sostenendo che essa violerebbe l’articolo 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, incidendo indebitamente su una materia – quella della tutela della concorrenza – riservata alla competenza esclusiva dello Stato.
La legge regionale della Toscana 30/2025 su salario minimo negli appalti pubblici: contenuti e finalità
La norma oggetto di contestazione introduce alcune modifiche alla l.r. 18/2019, già orientata alla promozione della “buona impresa” e della qualità del lavoro nell’ambito dei contratti pubblici. In particolare, l’articolo 1 inserisce il nuovo articolo 6.1 nella l.r. 18/2019, secondo cui: “I bandi di gara […] con particolare riguardo agli affidamenti ad alta intensità di manodopera basati sul criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa, prevedono quale criterio qualitativo premiale l’applicazione di un trattamento economico minimo orario non inferiore a nove euro lordi.”
La norma si applica, dunque, alle procedure in cui la Regione Toscana (con i propri enti, aziende sanitarie e società in house) agisce come stazione appaltante o concedente e ha carattere incentivante: non introduce un salario minimo legale, ma favorisce le imprese che riconoscono retribuzioni più elevate.
La legge, dunque, mira a contrastare il dumping salariale – la competizione al ribasso sul costo del lavoro – nei settori più esposti (come pulizie, vigilanza, servizi ausiliari), favorendo le imprese che praticano trattamenti economici più equi e coerenti con la qualità delle prestazioni richieste.
L’articolo 36 della Costituzione
Il principio cardine del nostro ordinamento in materia di salario è contenuto nell’articolo 36 della Costituzione, che stabilisce: “Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.”
La norma impone che ogni rapporto di lavoro sia retribuito in misura proporzionata (in relazione alla prestazione svolta) e sufficiente rispetto alla dignità della persona e alla funzione sociale del lavoro.
Nel nostro ordinamento, tuttavia, non esiste un salario minimo fissato dalla legge: la quantificazione della retribuzione “giusta” avviene, di norma, prendendo come parametro la contrattazione collettiva nazionale di settore.
La Direttiva (UE) 2022/2041 sui salari minimi adeguati
Anche a livello sovranazionale, il tema della retribuzione è oggetto di attenzione crescente. La Direttiva (UE) 2022/2041 si occupa dei salari minimi all’interno dell’Unione europea e stabilisce una serie di obblighi per gli Stati membri.
Più nel dettaglio, la Direttiva prevede che gli Stati:
- assicurino che i salari minimi legali, laddove esistano, siano adeguati rispetto al costo della vita e alla produttività nazionale;
- adottino criteri trasparenti per la loro determinazione, utilizzando come riferimento il 60% del salario mediano o il 50% del salario medio nazionale;
- promuovano e rafforzino la contrattazione collettiva, con l’obbligo di adottare piani specifici nei casi in cui la copertura dei contratti collettivi sia inferiore all’80%;
- garantiscano trasparenza, controlli e accesso alle informazioni sulle condizioni retributive, anche nei settori degli appalti pubblici.
Il contributo dell’ISTAT al dibattito sul salario minimo in Italia
Un punto di riferimento importante nel dibattito sul salario minimo è rappresentato dall’audizione dell’ISTAT tenutasi il 12 luglio 2023 presso la XI Commissione Lavoro della Camera. Nell’occasione, l’Istituto ha fornito una fotografia dettagliata della situazione retributiva in Italia, evidenziando le fasce di lavoratori a basso salario e valutando gli effetti redistributivi e occupazionali potenziali di un intervento normativo volto a introdurre una soglia minima.
Dalla rilevazione emerge che circa 3,6 milioni di lavoratori – pari al 22% dei dipendenti del settore privato – percepivano nel 2021 una retribuzione oraria inferiore ai 9 euro lordi. Si tratta di una quota significativa, concentrata in particolare nei settori a bassa intensità di capitale umano, come servizi di pulizia, ristorazione, logistica, sorveglianza e assistenza. Proprio i comparti oggetto dell’intervento toscano.
L’ISTAT ha sottolineato che l’eventuale introduzione di un salario minimo legale pari a 9 euro comporterebbe una crescita media del 12% delle retribuzioni orarie per i beneficiari diretti. In termini redistributivi, l’impatto sarebbe particolarmente marcato nelle fasce più basse della distribuzione del reddito da lavoro, contribuendo a ridurre la disuguaglianza e a rafforzare la funzione sociale del lavoro.
Dal salario dignitoso al progresso collettivo
I dati forniti raccontano una verità che non può più essere ignorata: in Italia esiste una fetta ampia di lavoratori sottopagati, spesso invisibili, che garantiscono servizi essenziali per la collettività, ma senza ricevere un corrispettivo economico davvero dignitoso.
Eppure, la nostra Costituzione, all’art. 36, è chiara e inequivocabile: ogni lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata e sufficiente a garantire a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Non si tratta di una concessione, ma di un diritto fondamentale, che il legislatore e le istituzioni tutte hanno il dovere di garantire.
In questo contesto, l’intervento della Regione Toscana – pur nel suo ambito limitato –rappresenta un tentativo concreto di dare attuazione a un principio costituzionale, dinanzi all’inerzia dello Stato. Non fissa un salario minimo per legge, ma riconosce, almeno negli appalti pubblici, un vantaggio competitivo alle imprese che pagano di più, che rispettano i lavoratori e ne valorizzano la dignità. Una scelta politica, certo, ma fondata su criteri di giustizia sociale e coerenza costituzionale.
Non si può, infine, trascurare un altro articolo della Costituzione, troppo spesso dimenticato: l’articolo 4, secondo comma, che non attribuisce un diritto, ma impone un dovere: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”
È un’affermazione potente, che genera però un interrogativo rilevante: come può un lavoratore adempiere a questo “sacro” dovere, se la sua stessa retribuzione non gli consente nemmeno di vivere in modo dignitoso? Come può partecipare al progresso collettivo chi è costretto a vivere nella precarietà, nella povertà, nel ricatto quotidiano di uno stipendio insufficiente?
In assenza di un’adeguata tutela salariale, il lavoro non si eleva a funzione sociale: diventa sfruttamento. E a beneficiarne non è la collettività, ma una minoranza che concentra profitti e potere sulle spalle di chi lavora senza tutele.
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