Antonio D’Amato, Ceo di Seda International Packagign Group ed ex presidente di Confidustria,, parla di come rilanciare l’industria italiana ed europea.
Desertificazione industriale, minacce provenienti dai dazi statunitensi, costo dell’energia troppo elevato e la crisi del WTO che rischia di affossare le aziende europee invece di tutelarle.
Le tensioni che l’Europa è chiamata ad affrontare per evitare di rimanere indietro nello scacchiere commerciale internazionale sono molte e ne abbiamo parlato con Antonio D’Amato, presidente e Ceo del Seda International Packaging Group ed ex presidente di Confindustria.
Dottor D’Amato, l’Europa rischia la desertificazione industriale?
Negli ultimi 15 anni, l’Europa ha tenacemente perseguito una politica di deindustrializzazione nella miope e arrogante presunzione di poter delocalizzare la manifattura nelle aree del mondo a basso costo del lavoro, credendo di poter conservare il primato della tecnologia e dell’innovazione e di poter mantenere gli alti standard di welfare e di qualità della vita che contraddistinguono il nostro continente.
Ci siamo illusi, insomma, di poter difendere il valore aggiunto e le conquiste sociali ed economiche di una società industriale moderna e avanzata delegando produzione e manifattura. Le conseguenze di questo crescente indebolimento delle strutture produttive europee sono due.
La prima è che il livello di dipendenza strategica della nostra economia è molto alto e mette a rischio la nostra stessa autonomia e democrazia, soprattutto in uno scenario geopolitico così complesso e conflittuale.
La seconda è il progressivo impoverimento del ceto medio che rappresenta la vera garanzia della coesione sociale e della stabilità politica e democratica.
Le crescenti polarizzazioni sull’estrema destra e sull’estrema sinistra che stanno caratterizzando le dinamiche politiche dei Paesi comunitari ne sono una evidente testimonianza.
La storia del ’900 e i suoi orrori ci hanno insegnato cosa accade quando il ceto medio è messo alla frusta: crescono le intolleranze, i sovranismi, i razzismi, mettendo così a rischio la pace.
Si possono rilanciare l’economia europea e quella nazionale?
L’obiettivo deve essere chiaro: serve una nuova strategia industriale europea che rilanci la manifattura come motore di innovazione, occupazione e sostenibilità.
In poche parole, serve reindustrializzare l’Europa. Una società avanzata non può sopravvivere senza una base industriale solida, che rappresenti almeno il 20-25% del Pil.
È necessario abbandonare il mito della “decrescita felice” e tornare a promuovere investimenti, ricerca e lavoro qualificato. Questo significa, da un lato, fermare la crescente iper-regolamentazione europea, la sua soffocante burocrazia.
Occorre un quadro regolamentare stabile che consenta il rilancio di investimenti di qualità, innovativi, sostenibili sul piano economico e ambientale per promuovere lavoro buono.
Dall’altro lato per evitare la sleale pressione competitiva che viene da Paesi che continuano a fare dumping sociale, ambientale e fiscale va ridefinito il quadro delle regole del commercio internazionale, che da tempo è seriamente compromesso e in crisi.
Quali effetti avrebbe l’introduzione dei dazi americani per le aziende italiane?
L’eventuale imposizione di dazi da parte degli Stati Uniti rappresenterebbe un rischio rilevante per l’economia europea, ma forse ancor più significativo per quella americana.
I dazi comporterebbero tensioni inflazionistiche e spingerebbero l’economia europea verso la dipendenza da mercati asiatici, che sono la vera minaccia di lungo periodo per tutte le economie occidentali.
La mia impressione è che la politica americana stia usando questa tensione commerciale più come strumento negoziale che come reale strategia protezionistica. Il vero problema è che tutto questo rende più difficile affrontare il cuore della questione: la crisi del WTO.
Servono regole nuove, sostenibili e valide per tutti su ambiente, concorrenza e commercio equo.
L’Italia è ancora attrattiva per gli investitori stranieri?
Purtroppo è l’intera Europa che non risulta più appetibile per gli investimenti produttivi. I motivi principali sono legati all’incertezza normativa e all’instabilità regolatoria, alla sovrapposizione e schizofrenia delle norme come la tassonomia energetica, e all’eccessiva autoreferenzialità delle politiche europee, che sembrano ignorare la competizione globale.
Nel Vecchio continente si assiste a una stagnazione che non attrae nuovi investimenti. Anche quelli europei interni sono in forte calo. E se ci sono operazioni, spesso riguardano acquisizioni di brand più che la creazione di nuovi impianti produttivi.
L’Italia, dal canto suo, continua a essere un Paese con grandi potenzialità, perché ha un tessuto industriale flessibile, imprenditori innovativi e filiere produttive efficienti.
Tuttavia per liberare queste energie serve una politica industriale comunitaria coerente, un costo dell’energia competitivo e un quadro regolatorio stabile e lungimirante. Solo così potremo combattere il declino industriale, rinvigorire la competitività europea e ridare prospettive alle nostre imprese.
Il costo dell’energia è uno dei fattori critici per la competitività delle imprese italiane. Quali effetti comporta e quali sono le possibili soluzioni attuabili?
In Italia l’energia costa molto di più che in qualsiasi altro Paese europeo. E questo rappresenta un peso notevole per il nostro sistema produttivo, in particolar modo per il settore manifatturiero che costituisce la spina dorsale dell’economia nazionale.
Tale extra-costo danneggia gravemente la competitività delle nostre imprese sui mercati mondiali. Questo si ripercuote negativamente non solo sulle imprese ma anche sui consumatori finali che subiscono un aumento dei prezzi.
Come si potrebbe arginare il problema?
Per invertire la rotta bisogna agire su diversi piani. Innanzitutto, bisogna investire da subito sull’energia nucleare, consapevoli che questo produrrà effetti solo su medio e lungo periodo. La riapertura del dibattito sul nucleare rappresenta sicuramente un passo avanti importante in questa direzione, ma occorre accelerare.
Una nuova generazione di impianti consentirebbe di decarbonizzare il sistema, rafforzare l’indipendenza energetica nazionale e fornire energia sostenibile a costi competitivi per imprese e famiglie.
Nel frattempo, però è importante e urgente intervenire anche sul disaccoppiamento del prezzo del gas dal prezzo dell’energia elettrica.
L’attuale meccanismo europeo è basato su dinamiche speculative e finanziarie che, invece di rispondere all’effettiva reciprocità di domanda e offerta, creano una distorsione penalizzante per l’economia reale.
Anche le fonti rinnovabili, in questo contesto, pur avendo un basso costo di produzione, paradossalmente finiscono per essere vendute a prezzi gonfiati. Serve un’azione politica decisa e immediata a livello europeo per correggere questa alterazione. È inaccettabile che si continui a perseverare in questo insostenibile squilibrio.
L’articolo originale è stato pubblicato sul numero di Fortune Italia di luglio-agosto 2025 (numero 6, anno 8)
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