Per una Europa di pace, scienza e cultura


Negli ultimi mesi, sulla scia delle politiche intraprese da Donald Trump contro scienza e università, molti paesi, come Canada, Cina, Regno Unito, hanno preso iniziative mirate ad attrarre i migliori scienziati in fuga dagli USA. Un sondaggio di Nature ha stimato che tre quarti degli intervistati considerano seriamente la possibilità di lasciare gli USA. Si apre quindi la possibilità di accogliere in Europa menti capaci di innovazione, con un’inversione della tendenza che nell’ultimo secolo ha fatto la forza degli USA e indebolito il vecchio continente. Un rilancio dell’innovazione e della ricerca scientifica è infatti assolutamente essenziale per il nostro benessere e progresso. Tesi confermata da molti esempi, non ultimo quello della Finlandia, che in pochi decenni ha scalato le classifiche di reddito e qualità della vita grazie ai forti investimenti in formazione e innovazione. Un ambiente scientificamente e tecnologicamente avanzato, ricco di buone infrastrutture, creerebbe un volano positivo di attrazione per le migliori menti e farebbe dell’Europa un’oasi di libertà, pace e benessere. Tale disegno non può prescindere da una politica Europea finalmente coesa. Nessuno dei 27 paesi può infatti competere con le grandi potenze nello scenario geopolitico.

Programmi di rilancio di R&D: sono fattibili?

Il primo in Europa a mettere l’innovazione al centro della strategia economica e politica, ben prima dello tsunami trumpiano, è stato Mario Draghi che, nel suo rapporto sulla competitività del 2023, propose di raddoppiare il budget europeo del prossimo programma quadro per finanziare ricerca e sviluppo (Framework Programme 10): dagli attuali 95,5 miliardi di euro di Horizon Europe, in vigore fino al 2027, a circa 200 miliardi. Ad aprile 2025, in piena crisi della ricerca statunitense, illustri membri dell’Accademia dei Lincei, tra cui Ugo Amaldi e Giorgio Parisi, hanno presentato un programma che come quello di Draghi si concentra sul rifinanziamento della ricerca a livello europeo, con un piano ventennale di investimenti per riequilibrare le disomogeneità tra i 27 paesi europei.

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Questi programmi sono fattibili? Partiamo dalla spesa dei paesi europei in Research and Development (R&D), termine che include la ricerca di base, la ricerca applicata e quella sperimentale finalizzata allo sviluppo di nuovi prodotti. In media, i paesi dell’UE spendono per R&D il 2,1% del PIL. In Italia, la spesa in non arriva all’1,5% del PIL, ed è diminuita rispetto al 2022 e 2023. Solo Belgio (3,44%), Svezia (3,40%), Austria (3,20%) e Germania (3,13%) investono percentuali superiori al 3% sul PIL, e sono quindi a livello degli USA, che (fino a ora) hanno investito circa il 3% del PIL. Se esaminiamo separatamente settore pubblico e privato, nei paesi OCSE analizzati il peso del settore pubblico si è ridotto negli ultimi anni rispetto alla componente privata, rappresentata dagli investimenti delle imprese. In Italia, la spesa pubblica è stimata allo 0,5% del PIL nel 2024, con un aumento di solo 0,1% previsto dal governo nei prossimi 5 anni.

Da questi dati si evince che solo alcuni paesi europei sono in grado di stanziare denaro per implementare la ricerca in Europa e accogliere gli scienziati stranieri: la maggior parte infatti ha finanziamenti che riescono a malapena a tenere insieme il sistema università e ricerca pubblica nazionale. 

A causa del divario economico e altre problematiche (non ultima una certa difficoltà di alcuni paesi a sentirsi parte integrante dell’Europa), invece di far fronte comune in nome dell’Europa, invece di sentirsi ancora più europei, invece di sfruttare la situazione per rinsaldare collaborazioni e lavorare insieme, abbiamo assistito a un certo allontanamento dall’idea di un progetto comune.

Alcuni esempi: Francia, Belgio, Germania, Olanda, Spagna si sono mossi singolarmente, offrendo posizioni e grant per gli scienziati USA che vogliono lasciare il loro paese a causa delle politiche attuali. La Francia ha organizzato il meeting Choose Europe for Science, cui erano invitati tutti i ministri della ricerca dei paesi EU (ma non tutti hanno partecipato), dove è stato deciso di stanziare 600 milioni per il biennio 2025-2027: 500 europei, e 100 francesi.

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Infine, solo 13 su 26 paesi europei hanno firmato una lettera alla commissaria europea per la ricerca, l’innovazione e la scienza Ekaterina Zaharieva, in cui si chiede sostegno economico e strutturale per rilanciare la ricerca e attrarre gli scienziati che lasciano il loro paese per poter continuare liberamente il loro lavoro.

L’Europa della scienza c’è

L’Europa ha però dimostrato di esserci: Zaharieva ha portato avanti le istanze dei paesi firmatari e dichiarato che «L’Unione europea ospita già il 25% dei ricercatori del mondo», sottolineando che «ogni euro investito oggi attraverso il programma Horizon Europe genererà 11 euro di ricavi entro il 2045». Inoltre, ha annunciato che l’obiettivo dell’UE è che entro il 2030 il budget per la ricerca scientifica raggiunga il 3% del PIL (pari a circa 510 miliardi). «L’Europa sceglie la scienza, che è fonte di progresso e ha un ruolo cruciale per la nostra sovranità e sicurezza economica, per la nostra resilienza e per la democrazia», ha detto Zaharieva, che ha anche sottolineato come lo sviluppo delle tecnologie quantistiche e dell’intelligenza artificiale sia direttamente legato alle possibilità di proteggere la società e i valori europei.

Inoltre, Von der Leyen ha annunciato «una nuova super sovvenzione per i ricercatori della durata di sette anni». Maria Leptin, presidente del European Research Council (ERC) per la selezione e gestione dei finanziamenti, ha dichiarato che ERC fornirà un contributo aggiuntivo di “start-up” per aiutare i nuovi beneficiari a creare il proprio laboratorio o team di ricerca in Europa: dal milione di euro previsto finora si arriverà a 2 milioni.

Nel frattempo, un altro programma di rifinanziamento europeo della ricerca, che ha raccolto in pochi giorni la firma di più di 2000 scienziati europei, è stato presentato dai professori Silvano Tagliagambe e Roberto Battiston col nome di ReBrain Europe. L’obiettivo è rinnovare lo sforzo che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, permise all’Europa di costruire istituzioni di riferimento mondiale, come CERN, ESO, ESA, EMBL. Oggi, con competenze scientifiche in cerca di nuovi spazi liberi, possiamo fare altrettanto, anche approfittando del “brain drain” alla rovescia.

Dove trovare i finanziamenti?

Quindi se il progetto di rilancio di Innovazione e Ricerca in Europa è condiviso (più o meno caldamente) dai paesi UE, torniamo al punto chiave: come trovare i soldi per poter rapidamente dare inizio alla riorganizzazione?

È fondamentale che il finanziamento sia europeo e non incida sugli stanziamenti nazionali che in molti paesi sono già insufficienti. I ricercatori italiani (ma anche di altri paesi europei) temono di pagare in prima persona lo sforzo europeo di reclutare scienziati statunitensi. In effetti, la crisi attuale ha portato vari paesi a ridurre i finanziamenti pubblici alla ricerca e all’università: in Francia, a fronte della partenza di Choose Europe for Science e lo stanziamento di fondi e spazi da parte di singole università, il taglio già approvato di 1,5 miliardi preoccupa i ricercatori francesi. In Italia sono previsti tagli di 700 milioni nel prossimo triennio, e molti ricercatori rischiano di dover lasciare il paese o cambiare lavoro a causa dell’esaurimento dei fondi del PNRR. È chiaro che il doppio standard del progetto ReBrain Europe crea perplessità soprattutto nei paesi che meno investono nella ricerca. Ma il numero di questi paesi sta aumentando: persino la ricca Svizzera ha deciso di tagliare 460 milioni di franchi all’anno negli investimenti in formazione, ricerca e innovazione, come denunciato da Martin Hairer, insieme a cinque colleghi, tutti medagliati Fields. I sei vincitori del più importante premio in matematica hanno scritto su questo tema una durissima lettera aperta ai politici Svizzeri, contestando le loro scelte.

L’Europa deve quindi recuperare i fondi a livello centrale. Due recenti finanziamenti europei indicano la strada. Il NextGeneration EU ha raccolto 750 miliardi principalmente attraverso l’emissione di titoli di debito da parte della Commissione europea sui mercati finanziari, con una garanzia fornita da tutti gli stati membri dell’UE. L’UE ha cioè emesso degli Eurobond per raccogliere fondi, che saranno poi restituiti nel tempo. Anche parte dei fondi per il piano ReArm (800 miliardi) provengono dagli Eurobond emessi dalla Banca Europea degli Investimenti, che ha il ruolo di finanziare progetti che supportano gli obiettivi dell’UE. ReArm è stato anche pesantemente finanziato da investimenti privati destinati a sviluppare e modernizzare le capacità di difesa europee, con grande profitto da parte dei finanziatori.

Queste strategie potrebbero portare a uno stanziamento di 100 miliardi per i progetti tipo ReBrain Europe? Secondo Giovanni Dosi, economista, e Rocco de Nicola, informatico, che hanno dedicato al tema un articolo su Scienza in rete, l’idea di creare un fondo UE da 100 miliardi di euro — tramite Eurobond —per creare nuove istituzioni di ricerca avanzata e attrarre studiosi dagli USA e dal mondo è ragionevole. A fronte degli 800 miliardi di euro per ReArm Europe, investire 100 miliardi nella ricerca darebbe un chiaro segnale di un’Europa orientata anche alla conoscenza e alla libertà accademica, che tende all’innovazione tecnologica e sostiene crescita economica, impatto sociale e sostenibilità ambientale. Questa iniziativa sarebbe inoltre un ottimo investimento: M. Stamegna e colleghi dimostrano che in Europa la spesa militare, dipendente da tecnologie USA, ha effetti economici inferiori rispetto agli investimenti in sanità e ambiente, settori dove il continente eccelle. Più investimenti in ricerca porterebbero benefici diffusi e sviluppo ad alta qualificazione.

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C’è bisogno di un’Europa davvero unita per affrontare questa sfida

Ma solo se veramente unita l’Europa può affrontare questa sfida. Purtroppo finora vari paesi non hanno partecipato alle varie iniziative. Tra questi l’Italia, che ha scelto di non aderire ai progetti summenzionati: la ministra Bernini non ha firmato la lettera dei 13 paesi membri che chiedevano alla commissaria Ekaterina Zaharieva un supporto per rilanciare la ricerca e accogliere gli stranieri, ha disertato l’incontro parigino Choose Europe for Science, non ha risposto all’appello inviato dagli scienziati italiani per supportare il programma ReBrain Europe.

La ragione di questa scelta non è chiara. Bernini ha criticato il protagonismo francese in occasione di Choose Europe for Science, sottolineando come una strategia efficace debba essere squisitamente europea. Concordiamo con la ministra che il meeting ha avuto una forte impronta francese, che non è piaciuta a molti: vero è anche che la Francia è stato il primo paese a muoversi per accogliere scienziati statunitensi e ha comunque investito 100 milioni in Choose Europe for Science. Concordiamo anche che una strategia efficace debba essere europea. Oltre alle ragioni che abbiamo già discusso, è impossibile per i singoli paesi competere, considerando per esempio che nel solo 2024 gli USA hanno investito oltre 100 miliardi nell’intelligenza artificiale, seguiti a ruota dalla Cina. Ma le scelte di non partecipazione della ministra rimangono oscure. Bernini ha dichiarato che l’Italia ha «già agito, mentre gli altri annunciano», riferendosi, secondo Il Sole 24 ore (5 maggio 2025) al bando da 50 milioni aperto il 7 aprile scorso per attirare in Italia i cervelli in fuga. Ma questo bando nulla ha a che fare con l’accoglienza a cervelli in fuga. È infatti riservato a ricercatori, già premiati da un grant ERC, che abbiano concluso il proprio progetto ERC in un’istituzione europea e che attualmente svolgano attività di ricerca fuori dall’Italia – escludendo di fatto chi fugge da oltreoceano. Purtroppo, in alcuni giornali, la notizia è stata riportata erroneamente. Per esempio, su Italia Oggi il titolo dell’articolo di Martino Scacciati (29/04/2025) riportava: «Al via il bando per portare in Italia ricercatori stranieri in fuga dagli USA».

Come anticipato, la diffidenza dell’Italia nei confronti di azioni europee potrebbe essere motivata dal timore che i ricercatori italiani (e anche di altri paesi EU) paghino di persona lo sforzo europeo di reclutare scienziati statunitensi. La soluzione però non è tirarsi fuori dalle iniziative europee. I soldi recuperati a livello centrale (per esempio tramite Eurobond, come indicato sopra) possono servire anche a rafforzare le università pubbliche in tutti i paesi e offrire contratti stabili. Su queste basi, la Commissione europea avvierà nell’ambito di Choose Europe for Science un progetto pilota di 22,5 milioni di euro nel 2025. L’obiettivo è creare percorsi professionali più stabili per i ricercatori a inizio della carriera, ridurre la precarietà e allineare i ruoli di ricerca alle strategie istituzionali a lungo termine. I programmi sono aperti ai ricercatori di tutto il mondo, il che rafforza l’ambizione dell’Europa di attrarre e trattenere i migliori talenti e di promuovere l’eccellenza nella ricerca.

Al di là dei finanziamenti: come riorganizzare R&D in Europa?

Come sempre, il denaro è necessario ma non sufficiente: al di là dei finanziamenti, c’è necessità di riorganizzare alcune aree di R&D europei. Abbiamo dei punti di forza: centri come il CERN e l’EMBL sono ai vertici mondiali in fisica e scienze della vita, e un ente quale il Consiglio Europeo per la Ricerca (ERC), si è dimostrato capace di selezionare e finanziare efficacemente i migliori progetti esclusivamente in base all’eccellenza e al merito. Ma abbiamo anche dei punti deboli, come il settore dell’innovazione. Recentemente è nato l’European Innovation Council (EIC), il programma di innovazione di punta dell’Europa con lo scopo di identificare, sviluppare e ampliare tecnologie innovative e innovazioni rivoluzionarie. L’Europa potrebbe trarre grandi benefici da una linea diretta che colleghi l’ERC all’EIC. L’ERC dovrebbe continuare la sua politica di privilegiare le migliori idee “bottom-up”: i progetti hypothesis driven che, benché pensati senza velleità di applicazione clinica o tecnologica, sono quelli che più spesso conducono a enormi progressi anche applicativi. Pensiamo agli anticorpi monoclonali che, scaturiti dalla pura curiosità di due grandi immunologi nel 1974, sono oggi tra i farmaci più efficaci in molte malattie e una miniera d’oro per le industrie farmaceutiche che li producono.

Al contrario, l’EIC dovrebbe fare una programmazione “top-down”, con un board tecnico-politico che proponga temi di ricerca ritenuti fondamentali, quali le frontiere delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, tra cui l’intelligenza artificiale generativa, l’informatica quantistica, il cloud pubblico europeo e la sicurezza informatica, ma anche la tutela dell’ambiente: dall’idrogeno veramente “verde” alle tecnologie per lo smaltimento delle tossine che rilasciamo nell’ambiente.

Con lo stesso tipo di logica, sia bottom-up che top-down, dovrebbe qui essere integrato anche il Framework Programme, dedicato a finanziare team sovranazionali. Una rete di distretti europei per l’innovazione sarebbe un valore aggiunto: collaborando e condividendo le migliori pratiche, avremmo più probabilità raggiungere velocemente gli obiettivi senza sprecare tempo, energia, cervelli e denaro in una concorrenza inutile.

Assai lodevole in questo senso è l’iniziativa di ERC di riunire in un recente workshop scienziati, leader dell’industria e responsabili politici, per analizzare in modo bipartisan – o meglio multipartisan – i problemi della ricerca in Europa e identificare possibili soluzioni. I partecipanti hanno espresso un messaggio comune di collaborazione e urgenza del tutto apartitico, e identificato i principali ostacoli all’innovazione in Europa: il più importante è la frammentazione, sia dei mercati che dei quadri normativi. È quindi necessario un sostegno a lungo termine per la scienza, in particolare per la ricerca di frontiera ad alto rischio, che non può prosperare con cicli di finanziamento brevi o obiettivi industriali troppo ristretti. Confidiamo che il dialogo tra soggetti diversi continui, e presto passi all’azione, per un’Europa competitiva.

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Un nuovo Rinascimento

Nel Rinascimento l’Italia seppe attrarre e valorizzare i migliori artisti e pensatori. Oggi l’Europa ha l’opportunità di costruire un nuovo Rinascimento scientifico e culturale, capace di garantire benessere, libertà e soprattutto pace. Investire in conoscenza è cruciale, soprattutto per paesi poveri di materie prime come l’Italia. Non solo per motivi economici, ma perché l’eccellenza scientifica è il miglior antidoto contro derive autoritarie. E perché riappropriarsi del dominio in R&D rafforzerebbe l’Europa anche dal punto di vista politico, e la toglierebbe dallo scomodo ruolo di innocent bystander in cui purtroppo i potenti della terra ci hanno relegato.

Conclusioni

Perché l’Europa vinca questa battaglia servono tre componenti:

  1. massicci investimenti che non pesino su quanto i singoli paesi investono in ricerca;
  2. un nuovo orgoglio europeo, stimolato da iniziative diplomatiche che aiutino i paesi membri a riconoscersi nei grandi valori comuni di pace, libertà, giustizia e progresso;
  3. un cambio di marcia riguardo la ricerca scientifica: non solo educazione alla scienza, molto in affanno in molti paesi, ma anche apprezzamento sociale e percorsi di carriera attraenti.

Per noi italiani è bello e gratificante sapere che produciamo ottimi ricercatori (quest’anno l’Italia è terza per numero di vincitori di grant ERC). Purtroppo, però, i vincitori scelgono altre sedi, e il bel paese non attrae più. Negli ultimi dieci anni sono emigrati dall’Italia oltre 14.000 ricercatori. In paesi come Austria, Germania e Olanda succede l’opposto: i vincitori sono meno, ma restano nel paese di origine, dove emigrano anche i migliori provenienti dal resto del mondo, perché accolti da strutture efficienti in un contesto disponibile e collaborativo. L’Italia non può più tollerare questa emorragia di risorse che ci sta condannando a un ruolo subalterno. Con l’aiuto dell’Europa, di cui siamo parte integrante, dobbiamo creare strutture e disegnare politiche capaci di attrarre le menti migliore e aiutarle a gettare nel nostro terreno i semi di un futuro di pace e progresso.

 





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