Horizon è un nome suggestivo, e l’orizzonte che evoca è quello di un’Europa finalmente al passo degli Stati Uniti quanto a sviluppo tecnologico, agilità imprenditoriale, innovazione, ricerca. E infatti si chiama Horizon il fondo con cui l’Ue con contributi e sgravi cerca di sostenere il tasso di creatività e d’innovazione delle imprese europee: 80 miliardi nella prima versione inserita da Bruxelles nel budget settennale 2014-20, saliti a 95 nel bilancio in corso 2021-27, raddoppiati fino a 190 miliardi sempre che venga approvata la proposta di preventivo 2028-34 messa sul tavolo dalla Commissione a metà luglio e avviata a una lunga negoziazione, con il pericolo incombente che categorie “forti” riescano a ritagliarsi fette maggiori della torta complessiva: 2.800 miliardi di euro.
Eppure il rapporto di Mario Draghi del settembre 2024 che Ursula von der Leyen, presidente della Commissione, ha messo al centro del programma per il suo secondo mandato cominciato in primavera, è chiaro sulla carenza di competitività: «Rimanendo nella traiettoria attuale, la crescita in Europa si arresterà. Se l’Ue manterrà la salita della produttività che aveva nel 2015 dello 0,7 per cento l’anno, sarà appena sufficiente a tenere la crescita costante fino al 2050. Con un rapporto debito pubblico/Pil storicamente elevato, tassi d’interesse reali più alti di quelli dell’ultimo decennio e crescenti esigenze di spesa per decarbonizzazione, digitalizzazione e difesa, la crescita stagnante del Pil potrebbe in ultima istanza portare a livelli di debito pubblico insostenibili e l’Europa costretta a rinunciare a uno o più di questi obiettivi». Cioè niente svolta verde, niente sviluppo digitale, niente riarmo tante volte invocato. E fuori dalla grande sfida dell’intelligenza artificiale.
Ecco la necessità di riprendere la corsa. «Il fattore chiave dell’aumento del divario di produttività tra l’Ue e gli Stati Uniti – aggiunge il report – è la tecnologia digitale. La ragione prima per cui la produttività dell’Ue è inferiore a quella degli Usa fin dalla metà degli anni ’90, è stata l’incapacità di capitalizzare la rivoluzione di Internet sia in termini di creazione di imprese hi-tech che di diffusione della tecnologia digitale nell’economia».
Anche altre sono le ragioni per spiegare il gap d’innovazione fra Europa e America. Una la illustra Angelo Baglioni, economista della Cattolica. Ha a che vedere con l’antropologia culturale: «È diffusa presso i cittadini europei, italiani in testa, la collocazione dei risparmi, e in Europa non ne mancano, in “porti” sicuri: obbligazioni, titoli di Stato di cui c’è grandissima offerta vista la precarietà di tanti debiti nazionali, fondi d’investimento a basso rischio, il tutto favorito dalle banche che mantengono così salda la presa sui finanziamenti. In America c’è invece la cultura del rischio e dell’investimento in azioni, che ha sì portato a crac clamorosi, però nel suo insieme ha permesso a molte aziende di nascere, prosperare e trasformarsi in Big Tech».
Le azioni sono un’opzione per allocare i risparmi, precisa il professore, che richiede – al contrario di quanto si può pensare – molta pazienza: «Possono servire anni perché un titolo divenga profittevole, al contrario delle obbligazioni pubbliche o private intermediate dalle banche che offrono da subito una cedola per quanto modesta, ma priva di incognite». Ci sono poi il venture capital e addirittura i business angel dove gli investitori scommettono su una semplice idea e non aspettano neanche che l’azienda sia quotata al Nasdaq. «Così è cresciuto il fenomeno Silicon Valley con tutti i suoi imitatori, e grazie all’impulso di imprese nuove, giovani, basate su un’ipotesi e nulla più l’America ha aumentato il vantaggio sull’Europa», puntualizza Giampaolo Galli, direttore scientifico dell’Osservatorio sui conti pubblici. «Si corrono dei rischi ma una su cento ce la fa, e l’humus finanziario e imprenditoriale si mantiene vivo. Un fallimento non è uno stigma a vita ma solo un episodio al quale reagire: e Horizon è il campo d’azione per un intervento dell’Europa, compresa un’indottrinazione perché si diffonda la mentalità rivolta alla ricerca e alla tecnologia che è sovranazionale al di là dei dilaganti nazionalismi».
I fondi Horizon, tra l’altro, sono aperti alla compartecipazione di prestigiosi centri di ricerca extraeuropei – americani, giapponesi, israeliani – in grado di fornire elevato valore aggiunto, ma la Commissione Ue ha lunedì scorso escluso Israele, nell’ambito della pressione perché finisca l’assedio di Gaza. Il nuovo Horizon, si legge in un report del Bruegel Institute di Bruxelles, dovrebbe ispirarsi alle americane Advanced research project agencies, «che hanno dimostrato in più occasioni la loro validità come nel caso dei vaccini Rna: un’istituzione centrale alloca fondi pubblici e assume a tempo determinato dei “project leader” dall’accademia e dall’industria, ognuno con una precisa missione. I “leader” coinvolgono quindi i migliori laboratori pubblici e privati per raggiungere gli obiettivi». Un modello che non esiste in Europa «e che invece si è provato fruttuoso e spesso decisivo per il salto di qualità nell’innovazione», conferma Marco Buti, economista dell’Istituto universitario europeo di Firenze. «Il problema è che questi manager di progetto vanno ingaggiati, anche dall’estero e perché no dagli Stati Uniti ora che Donald Trump gli sta rendendo la vita difficile, e pagati adeguatamente.
È fondamentale che il fondo Horizon non venga modificato rispetto alla proposta iniziale come accadde con il NextGenEU (il programma “padre” dei Pnnr, ndr), quando la proposta della Commissione venne sostanzialmente emendata riducendo i progetti comuni e aumentando i trasferimenti agli Stati». Buti parla per esperienza diretta essendo stato direttore generale per gli Affari economici a Palazzo Berlaymont dal 2008 al 2019 e nei cinque anni successivi capo staff del commissario Paolo Gentiloni. «Solo mercati dei capitali più grossi e solidi, con una vera Unione dei risparmi e degli investimenti, potranno provvedere al potenziamento e alla de-bancarizzazione dei finanziamenti, compresi i nuovi eurobond richiesti da Draghi».
Ma i fondi Horizon soffrono di altri vizi ancora. come l’eccesso di pratiche burocratiche: se chi è alla ricerca di un’agevolazione è un giovane imprenditore, che dovrebbe essere il primo destinatario, non ha le risorse per pagare consulenti che invece diventano indispensabili, dall’avvocato al geometra. Va a finire, spiega Daniel Gros, direttore dell’Institute for european policymaking della Bocconi, «che la maggior parte dei beneficiari sono grandi gruppi già strutturati, da soli o in consorzio con qualche altro gigante, o tutt’al più start-up legate ad uno di essi. La validità di Horizon come acceleratore per lo sviluppo di giovani e indipendenti piccole imprese è ridotta: fino all’80% dei finanziamenti finisce nelle mani di società di media e non alta tecnologia, e perfino a società di consulenza il cui contributo allo sviluppo innovativo è zero». L’efficacia dei fondi va insomma recuperata modificando i criteri di accesso con la promozione di gare aperte e flessibili in grado di promuovere nuove, stimolanti e originali idee. Scommessa chiave per un’Europa davvero nuova e vitale.
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