Made in Italy e videogame: a che punto siamo?


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Quando si parla dei progressi e delle criticità legate all’industria dei videogame si finisce quasi sempre per far capo a realtà al di fuori dei nostri confini, con riferimento specifico ai principali mercati occidentali e orientali. Di rimando, la scena videoludica italiana rimane ai margini di ogni valutazione, il che proietta sugli utenti l’immagine di una realtà immobile e sostanzialmente ininfluente.

Al di là di ogni legittimo scetticismo, l’analisi dei numeri che interessano il nostro circuito ci presenta, in realtà, una situazione molto più complessa che statica, nell’ambito della quale sarebbe ancora possibile rintracciare appigli per azzardare un insperato rilancio. Come scopriremo a breve, il futuro dell’industria nostrana passa inesorabilmente dalla politica e, nel dettaglio, dal definitivo riconoscimento del videogame come una preziosa risorsa, piuttosto che alla stregua di una piaga sociale da estirpare.

Il mercato cresce, ma i ricavi vanno all’estero

Nel 2024 il mercato italiano dei videogiochi ha generato circa 2,4 miliardi di euro registrando un incremento vendite del +3% rispetto all’anno precedente: detta crescita si riflette anche in termini di bacino d’utenza che, avendo sfondato il tetto dei 14 milioni di utenti attivi, segna infatti una crescita dell’8% rispetto al 2023. Con una base di mercato costituita ormai dal 33% della popolazione di età compresa tra i 6 e i 64 anni, sarebbe in tal senso lecito attendersi numeri altrettanto confortanti anche per il nostro settore sviluppo e invece è proprio qui che casca purtroppo l’asino. A fronte di un pubblico sempre più vasto e quanto mai disposto ad investire nel prodotto, le 200 aziende a trazione italica che operano nel settore faticano ancora troppo a reggere i ritmi del mercato. Pur segnando percentuali positive comprese tra lo 0,01% e lo 0,02% rispetto a due anni fa, la crescita resta infatti troppo lenta per sperare di ottenere risultati in grado di incidere sul PIL della nostra nazione ed elevare il videogame allo status di bene profittevole. Tradotto in termini pratici, gli italiani amano i videogame e ne acquistano in quantità sempre maggiori, ma nel 90% dei casi comprano solo quelli sviluppati all’estero: piuttosto che alimentare il motore della nostra industria, gli introiti generati dalle vendite finiscono dunque per rimpinguare i bilanci di aziende statunitensi, nipponiche, francesi o cinesi, ampliando così il già cospicuo divario che separa le nostre realtà. Questo fattore non limita soltanto il peso del nostro Paese nello scacchiere internazionale, ma anche e soprattutto l’arsenale di sviluppatori di cui disponiamo. Rispetto a nazioni limitrofe come Francia, Germania, Regno Unito, Spagna, Polonia e Romania, possiamo in effetti vantare solo una decina di studi di sviluppo che esercitino un peso effettivo sulla scena internazionale e ancor meno studi che possano contare su uno staff superiore alle 20 unità. Stime ulteriori certificano questa problematica in modo più che eloquente: a dicembre 2024 l’intera industria dei videogiochi Made in Italy segnava, del resto, un totale di soli 2.800 lavoratori occupati, molti dei quali legati a contratti a termine o a semplici stage di breve durata. In relazione a numeri che sarebbe lecito definire allarmanti, non stupisce costatare l’entità della famigerata “fuga di cervelli”. Di fatto, 2 professionisti su 3 un lavoro in Italia neanche lo cercano più: si preferisce piuttosto migrare verso lidi più floridi, si trattasse anche della sola Europa dell’Est. Purtroppo la situazione appare molto grigia anche nei processi di finanziamento per l’avvio di nuove aziende e progetti di sorta. Mentre lo Stato continua a bruciare miliardi nel tentativo di tenere in piedi settori in perenne perdita come quello automobilistico o salvare dalla bancarotta squadre di calcio indebitate fino al midollo, l’impiego di risorse autonome resta il modello di riferimento per la stragrande maggioranza degli imprenditori i quali, si ritrovano anche orfani di capitale di rischio strutturato. Non esiste, in pratica, una rete solida, organizzata e continuativa di investimenti in equity a supporto delle imprese, soprattutto in ambito di startup e PMI innovative. In tal senso sarebbe sostanzialmente illogico pretendere risultati migliori: vista l’aria che tira, dovremmo anzi sentirci persino rinfrancati. Ma, al di là di facili ironie, cosa può essere fatto per imprimere una svolta all’intero movimento?

Lo Stato faccia la sua parte

Malgrado il ritardo accumulato sulla concorrenza estera sia sostanzialmente incolmabile, esistono una serie di misure che, se impiegate a dovere, potrebbero ancora oggi favorire un miglioramento sensibile dello scenario generale. È opinione diffusa che il primo passo da compiere consista nel rafforzare l’ecosistema di investimenti e che lo Stato debba rivestire un ruolo primario in questo processo: occorrerebbero, ad esempio, vantaggiosi incentivi fiscali per le start-up uniti all’investimento di fondi pubblici nel potenziamento degli strumenti e delle strutture dedicate alla formazione dei Game Developer. In parallelo, sarebbe opportuno facilitare l’accesso al venture capital attraverso partnership con finanziamenti europei cui abbinare l’incremento della visibilità internazionale del Made in Italy. Stiamo parlando dell’organizzazione di eventi e convention dedicate non solo ad appassionati o cosplayer bensì agli investitori, ma anche di elaborare strategie più aggressive nell’ambito del marketing col preciso intento di valorizzare il settore. Sarebbe, in altre parole, imperativo rivelare al mondo che, in qualità di quinto mercato europeo per flusso economico, l’Italia del gaming esiste e che le istituzioni sono pronte a fare tutto il necessario per supportare e promuovere i titoli sviluppati entro i suoi confini.

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Logicamente, un cambio di marcia di questa entità implicherebbe la collaborazione di una classe dirigente consapevole del potenziale di questo mercato e non più fossilizzata sul combatterlo alludendo agli “effetti negativi” che i videogame avrebbero sui “nostri bambini”. Nonostante il sensibile abbassamento dell’età media dei nostri parlamentari, il ricambio generazionale non sembra aver tuttavia assicurato i progressi sperati e questo è un bug di sistema letale che andrebbe corretto al più presto. Fino a quando i rappresentanti di governo non cambieranno atteggiamento nei confronti del medium e gli organi di competenza non inizieranno a inquadralo come un comparto prezioso del piano industriale teso alla digitalizzazione del Paese, questo luccicante treno per il futuro resterà fermo in stazione per altri quarant’anni, con tanti ringraziamenti da parte di ogni altro Stato la cui economia interna raccolga oggi i frutti di una scommessa accettata quando il Muro di Berlino era ancora in piedi.





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