I criteri per accedere al nuovo regime per i lavoratori impatriati sono molto selettivi ed hanno un obiettivo ben preciso: attrarre unicamente i professionisti più qualificati. A quanti volessero rientrare in Italia viene offerta una tassazione agevolata del 50% sui redditi che vengono prodotti nel nostro Paese (il limite annuale per godere dell’agevolazione è pari a 600.000 euro).
I requisiti più stringenti aprono la porta ad una necessità: comprendere chi ne sia in possesso per poter ottenere questi particolari benefici fiscali.
Lavoratori impatriati, cosa prevedono le norme
Per comprendere come funzionano le agevolazioni previste per i lavoratori impatriati è necessario fare una distinzione netta e ben precisa. A disciplinare il nuovo regime è l’articolo 5 del Dlgs n. 209/23, che deve essere applicato a quanti abbiano trasferito la propria residenza anagrafica in Italia a partire dal 1° gennaio 2024. Chi, invece, è arrivato prima del 31 dicembre 2023 ha la possibilità di beneficiare delle precedenti disposizioni (previste dall’articolo 16 del Dlgs n. 147/2015), che sono molto più vantaggiose.
La normativa del 2023 – ossia quella nuova – ha introdotto alcune modifiche molto importanti:
- è stato esteso il periodo di non residenza in Italia, portato da 2 a 3 periodi d’imposta, che in alcuni casi possono arrivare a 6 o 7;
- la permanenza minima in Italia è stata innalzata da 2 a 4 anni;
- è stato introdotto un requisito soggettivo: il richiedente deve essere in possesso di un’elevata qualificazione o specializzazione.
Senza dubbio l’ultimo requisito rappresenta la barriera più importante da tenere a mente nel momento in cui si ha intenzione di accedere alle agevolazioni.
Residenza fiscale
Tra i punti più delicati da analizzare – e che costituisce una delle differenze più importanti rispetto al passato – è la residenza all’estero. Non si deve essere stati residenti all’estero per un periodo fisso, ma è condizionata da un fattore cruciale: quanto è durato il rapporto di lavoro.
L’articolo 2 del Tuir prevede – almeno nella maggior parte dei casi – che il lavoratore impatriato sia stato residente fiscalmente all’estero nel corso dei tre periodi d’imposta che hanno preceduto il suo trasferimento. Purtroppo questo requisito viene a decadere nel momento in cui il lavoratore, una volta messo piede in Italia, continui a prestare la propria attività professionale per lo stesso datore di lavoro o per un soggetto che appartiene allo stesso gruppo. Il legislatore, infatti, si è prefissato uno scopo ben preciso: scoraggiare il più possibile dei trasferimenti di breve durata, la cui finalità sia semplicemente quella di ottenere i benefici riservati ai lavoratori impatriati.
Le situazioni nelle quali il lavoratore si può trovare
Prima di trasferirsi all’estero il lavoratore era impiegato nella stessa azienda o in una che fa parte dello stesso gruppo? Riuscire a fornire una risposta accurata a questa domanda permette di capire in quale casistica si ritrovi il soggetto che sta rientrando. La norma ha infatti individuato tre diverse situazioni nelle quali i diretti interessati si possono trovare:
- tre anni: il lavoratore rientra in Italia per svolgere la propria attività professionale presso un’azienda diversa rispetto a quella in cui era occupato all’estero. Quanti si dovessero trovare in questa situazione non devono essere stati residenti in Italia nel corso dei precedenti 3 periodi d’imposta;
- sei anni: il lavoratore continua a svolgere la propria attività presso la stessa azienda (si trasferisce in Italia, ma il datore di lavoro non cambia). In questo caso il periodo di non residenza in Italia deve essere pari a 6 anni;
- sette anni. il lavoratore si trasferisce in Italia continuando il proprio impiego con lo stesso datore di lavoro. Ma non solo: lavorava già per lo stesso soggetto prima di trasferirsi dall’Italia all’estero. Il cosiddetto periodo di raffreddamento, in questo caso, deve essere più lungo e deve essere pari ad almeno 7 anni di non residenza.
A prevedere queste particolari distinzioni è l’articolo 5, comma 1, lettera a) del Dlgs n. 209/23. È importante tenerne conto per comprendere se si abbia diritto o meno ad accedere al regime degli impatriati.
La permanenza in Italia
Il nuovo regime per i lavoratori impatriati non guarda solo al passato, ma costringe il richiedente ad impegnarsi anche per il futuro. Dovrà, infatti, risiedere fiscalmente in Italia per almeno quattro anni. Siamo davanti ad un impegno che è sostanziale, non solo formale. Nel caso in cui il richiedente dovesse spostare la propria residenza fiscale prima della conclusione del quadriennio, perderà tutti i benefici: l’Agenzia delle Entrate recupera le imposte che non sono state versate, a cui saranno aggiunte sanzioni ed interessi.
Lo svolgimento dell’attività professionale – non importa che sia di lavoro dipendente, assimilato o autonomo – deve avvenire in modo prevalente sul territorio italiano. Quando viene avviato un rapporto di lavoro dipendente, l’applicazione del beneficio deve essere richiesto a seguito di un autocertificazione da presentare in forma scritta al datore di lavoro. Quest’ultimo, che agirà come sostituto d’imposta, applicherà le agevolazioni previste direttamente in busta paga.
L’obbligo dell’elevata specializzazione o qualificazione
Il requisito dell’elevata qualificazione o specializzazione è il vero cuore della riforma. Ma in cosa consiste,? Per poter accedere ai benefici il lavoratore deve rientrare in una delle seguenti casistiche:
- essere in possesso di un titolo di istruzione superiore. È necessario aver conseguito un diploma di laurea almeno triennale o una qualifica professionale di livello post-secondario della durata di almeno un anno;
- avere i requisiti per esercitare una professione regolamentata. In altre parole deve poter svolgere un’attività che in Italia richiede un’abilitazione specifica, come l’avvocato, il medico o l’ingegnere, solo per fare degli esempi;
- una qualifica superiore che sia stata attestata nel paese di provenienza. Attraverso questa qualifica professionale superiore devono essere attestate le competenze che sono state acquisite nel Paese da cui si proviene.
I diretti interessati non si dovranno limitare a fornire un’autocertificazione generica: ma devono avere a disposizione tutta la documentazione necessaria per dimostrare in modo inequivocabile la propria specializzazione, in caso di controllo da parte dell’Agenzia delle Entrate.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link