I dazi di Trump accelerano e non fermano il rischio di dissoluzione degli USA. Mentre la deindustrializzazione avanza irreversibile e Trump aborre gli ideali solidaristici del New Deal (Aurelio Tarquini)


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Negli ultimi anni si è intensificato il dibattito riguardo alla deindustrializzazione degli Stati Uniti, un fenomeno considerato da molti osservatori ormai irreversibile. Nell’intervista condotta da Nadia Garbellini, OttolinaTV, a Joseph Halevi, uno dei maggiori economisti critici odierni, vengono affrontate le radici profonde di questa transizione, le sue conseguenze sui rapporti economici globali e le illusioni create dalle attuali politiche tariffarie e di rilancio industriale.

Dazi, ricadute interne e promesse mancate

Secondo analisi critiche recenti, i dazi imposti dagli USA – che dovrebbero teoricamente portare benefici all’industria nazionale, colpendo la concorrenza estera – finiscono per gravare principalmente sulle stesse aziende e sui consumatori interni. In particolare, i 300 miliardi di dollari stimati come introiti tariffari non sono altro che una tassa supplementare che pesa sull’economia domestica, senza produrre veri capovolgimenti di tendenza nel settore manifatturiero.

Questi dazi hanno un effetto depressivo sulla crescita: nel 2025, si prevede che possano ridurre il tasso di crescita del PIL reale americano di circa 0.5 punti percentuali anno su anno, con un calo duraturo del -0.4% sull’economia nel lungo periodo, e un aumento della disoccupazione. Ai benefici dichiarati per l’industria si contrappone una contrazione dell’occupazione, un aumento dei costi e una possibile diminuzione della competitività globale.

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Finanziarizzazione e declino industriale

Alla base di questa situazione, sottolinea Joseph Halevi, vi sono decenni di finanziarizzazione spinta dell’economia statunitense. Le grandi aziende, invece di investire in nuovi stabilimenti, ricerca e sviluppo, prediligono allocare enormi flussi di capitale nei circuiti finanziari: buyback azionari, speculazioni, fusioni e acquisizioni mirate principalmente a ottenere guadagni a breve termine. Questo ha impoverito la base manifatturiera, ridotto la capacità produttiva effettiva e limitato la resilienza dell’economia reale.

Negli USA, il settore manifatturiero era un pilastro per occupazione e innovazione, ma oggi impiega una quota sempre più ridotta della forza lavoro, mentre gli utili vengono drenati dall’alta finanza invece che reinvestiti nell’economia reale. La finanziarizzazione determina anche una concentrazione di potere economico nelle mani della grande finanza, creando quella che Halevi definisce un’aristocrazia che impone una rendita monopolistica all’intero sistema produttivo.

Gli investimenti promessi e le illusioni della rinascita industriale

Negli ultimi anni, amministrazioni di entrambi gli schieramenti politici hanno promesso centinaia di miliardi di dollari di nuovi investimenti industriali, spesso legati alla transizione energetica o alla modernizzazione della difesa. Tuttavia, questi flussi di capitale sono più spesso deviati verso circuiti finanziari speculativi che realmente impegnati per il rilancio produttivo.

Anche le grandi cifre annunciate dalla UE per l’acquisto di gas, armi e tecnologia dagli USA rischiano di rimanere sulla carta, dato che gran parte di questi prodotti non possono più essere forniti dagli stessi Stati Uniti, nonostante la retorica sull’autonomia strategica e il reshoring industriale.

La perdita di centralità nelle catene del valore globali

La globalizzazione e lo spostamento della produzione verso l’Asia, in particolare la Cina, hanno progressivamente ridotto il ruolo centrale degli Stati Uniti nelle catene globali del valore.

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Molte filiere strategiche – microprocessori, elettronica, batterie– vedono ormai Washington fortemente dipendente da importazioni di componenti chiave. Gli sforzi per riportare la produzione in patria si scontrano con una rete di fornitori ormai interamente internazionalizzata e con la perdita di know-how accumulata negli ultimi quaranta anni.

Le policy industriali attuali sembrano destinate a fallire perché non affrontano il nodo centrale: per invertire la rotta, bisognerebbe implementare una vera rivoluzione strutturale, capace di ridefinire completamente il modello di accumulo e la governance aziendale e finanziaria a livello sistemico. Ma una simile rivoluzione implicherebbe il rovesciamento degli attuali rapporti di potere, difficilmente ipotizzabile nell’attuale assetto politico e istituzionale americano.

Effetti concreti sulle imprese e sui consumatori americani

Il prezzo maggiore di questa strategia lo pagano le imprese manifatturiere più deboli e, soprattutto, i consumatori americani. I costi più alti sugli input industriali e sui prodotti finiti, dovuti alle tariffe sulle importazioni, si traducono direttamente in prezzi più elevati per cittadini e aziende, senza un corrispondente beneficio competitivo per l’industria nazionale. Gli investimenti pubblici, quando vengono realmente destinati al settore produttivo, sono spesso diluiti in una miriade di microprogetti o dispersi in benefici fiscali per i grandi gruppi finanziari.

Alla fine di questo processo, afferma Halevi, gli Stati Uniti non hanno scelto di scontrarsi davvero con la lobby della finanza, ma si sono semplicemente limitati ad aumentare la “tassa imperiale”: ovvero, hanno scaricato nuove pressioni sui propri cittadini e partner, cercando di mantenere rendite e privilegi tramite meccanismi coercitivi e politiche protezionistiche più che attraverso una moderna politica industriale.

Questa “tassa” si manifesta sia in forma di dazi sui beni importati, sia in una crescente pressione fiscale indiretta che grava su tutti i contribuenti, mentre il settore finanziario continua ad accumulare profitti record senza assumersi alcun rischio concreto nell’economia reale.

La prospettiva di una svolta: ostacoli e condizioni

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Invertire davvero questa tendenza richiederebbe una profonda trasformazione politica e culturale: abbattere il potere delle lobby finanziarie, redistribuire le risorse verso investimenti produttivi di lungo periodo, rafforzare la formazione tecnica, e ridefinire le strategie d’impresa in chiave meno speculativa e più orientata alla produzione reale. Tuttavia, gli attuali rapporti di forza e l’apparato regolatorio e istituzionale rendono una simile prospettiva molto remota.

Halevi suggerisce che servirebbe “detronizzare l’aristocrazia finanziaria” che oggi siede nei centri di comando delle grandi corporation, delle agenzie di regolazione e delle banche centrali, ma la realtà è che – per ora – le misure prese si limitano a piccoli aggiustamenti, senza mettere in discussione l’impianto di fondo.

Alla luce di questi fattori, la cosiddetta “deindustrializzazione irreversibile” degli Stati Uniti non è solo il risultato delle leggi dell’economia o della globalizzazione, ma è frutto di scelte politiche consapevoli, della trasformazione del capitalismo americano e dell’ascesa incontestata del settore finanziario rispetto a quello produttivo.

Non è escluso che tensioni geopolitiche più forti, crisi sociali o nuove leadership possano aprire varchi per un cambiamento radicale in futuro. Tuttavia, in assenza di una reale volontà politica, il rischio è che gli USA proseguano lungo la strada di una economia sempre più sbilanciata e fragile, nella quale i grandi capitali finanziari prosperano mentre il tessuto produttivo e la società pagano il prezzo dell’illusione di una rinascita industriale.

“Tutto quello che abbiamo promesso di acquistare in termini di gas e armi, gli USA, in realtà, in buona parte non sono in grado di produrlo: quarant’anni di finanziarizzazione hanno ridotto al lumicino il ruolo degli USA nelle catene del valore globale.” (Halevi)

L’intervista realizzata OttolinaTV a partire dalle riflessioni di Nadia Garbellini e Joseph Halevi mette in luce la portata strutturale e culturale della crisi industriale statunitense.

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La deindustrializzazione non è un destino ineluttabile, ma il risultato di scelte politiche ben precise, della progressiva subordinazione dell’economia reale alla logica speculativa e della rinuncia – almeno per ora – a una vera strategia di rilancio industriale. La sfida per il futuro sarà riuscire a invertire, con coraggio e visione, una deriva che rischia di minare definitivamente la leadership economica americana nel mondo.

La risposta del New Deal, che Trump aborre

Alla crisi degli anni Trenta il presidente Franklin Delano Roosevelt oppose il New Deal. Una risposta alla Grande Depressione. Più che un semplice insieme di politiche, rappresenta una visione di società in cui lo Stato assume un ruolo attivo e centrale nel regolare l’economia, proteggere i cittadini più vulnerabili e promuovere il bene comune. È una rottura con il liberismo puro, che affida tutto al mercato, e una scommessa su un capitalismo riformato e reso compatibile con la democrazia e la giustizia sociale.

In questo modello, il governo interviene direttamente per creare lavoro, rilanciare la domanda interna, sviluppare le infrastrutture, promuovere l’istruzione, garantire la sicurezza sociale. L’economia non è più lasciata a se stessa, ma guidata secondo criteri di equità, stabilità e modernizzazione. Il lavoro diventa un diritto, così come la protezione contro la disoccupazione, la vecchiaia, le malattie. Si riconosce il ruolo dei sindacati, si incoraggia la contrattazione collettiva, si fissano salari minimi e orari massimi, si cerca di redistribuire il reddito e di ridurre le disuguaglianze.

Il New Deal è anche un’idea di cooperazione tra pubblico e privato: lo Stato non nazionalizza tutto, ma regola, orienta, sostiene. Le grandi opere pubbliche non solo danno occupazione, ma costruiscono il futuro, trasformano il paese, rafforzano il senso di appartenenza. L’obiettivo è una società più solidale, meno spietata, dove la libertà non sia un privilegio ma un diritto accessibile a tutti.

Questa visione ha influenzato a lungo le democrazie occidentali, diventando un riferimento per le socialdemocrazie europee, il keynesismo, le politiche progressiste del secondo dopoguerra. È stata alla base dello stato sociale, del compromesso tra capitale e lavoro, della possibilità di coniugare crescita economica e diritti civili. Ancora oggi, quando si parla di Green New Deal, si recupera quello spirito: l’idea che le grandi sfide – oggi ecologiche e climatiche – richiedano risposte collettive, un forte intervento pubblico, un’economia al servizio delle persone e non dei profitti. L’ideale del New Deal, in fondo, è quello di un mondo più giusto, più umano, più sostenibile. Ed è esattamente quello che Trump non vuole.

Aurelio Tarquini

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Nella foto: un murale che raffigura scene relative al New Deal di Franklin Delano Roosevelt. Questo programma di riforme economiche e sociali fu attuato negli Stati Uniti tra il 1933 e il 1939 per contrastare gli effetti della Grande Depressione.



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