di Giuseppe Gagliano –
C’è chi guarda alle materie prime come a una questione di mercato. E c’è chi, invece, ci legge la geoeconomia. La notizia di un’alleanza tra Unione Europea e Stati Uniti sui metalli, annunciata dal commissario europeo al commercio Maros Sefcovic, è una conferma che oggi l’economia è campo di battaglia, e l’acciaio uno dei suoi asset più contesi.
La logica è semplice quanto impietosa: l’eccesso di produzione cinese, sostenuto da sussidi statali e distorsioni strutturali, ha invaso i mercati globali, danneggiando produttori locali e minacciando l’indipendenza industriale dell’Occidente. Stati Uniti e UE, spesso divisi sul piano commerciale, trovano ora un terreno comune: proteggere la propria filiera strategica.
Nel cuore dell’intesa si cela un obiettivo cruciale: evitare che l’economia europea, già messa a dura prova dai costi energetici e dalla concorrenza asiatica, venga spogliata anche delle sue fonderie. Non è solo una questione di tariffe: è la sopravvivenza stessa dell’industria siderurgica continentale a essere in gioco.
La proposta sul tavolo prevede un sistema di quote con tariffe ridotte o azzerate, per sostituire i dazi punitivi fino al 50% imposti da Donald Trump nel suo primo mandato. Una misura che, se finalizzata, rappresenterebbe una svolta non solo per gli esportatori europei, ma anche per il fragile equilibrio interno al blocco occidentale, da tempo logorato da guerre commerciali incrociate.
Pechino nel frattempo continua a produrre acciaio a ritmi vertiginosi, sostenuta da un modello economico incentrato su investimenti industriali pubblici, credito agevolato e dumping commerciale. Secondo l’OCSE, la Cina detiene oltre la metà della capacità produttiva mondiale di acciaio. E non si tratta solo di quantità: i prezzi bassi consentono alle imprese cinesi di scalzare i concorrenti in Africa, America Latina e persino in Europa.
L’allarme lanciato da Bruxelles riguarda anche un altro effetto collaterale: la perdita di rottami metallici. Sempre più spesso, infatti, le fonderie europee vedono sfumare le proprie forniture a vantaggio delle acciaierie statunitensi, che acquistano i materiali riciclati a condizioni migliori. La ferraille, come la chiamano in Francia, è cruciale: costa meno del metallo primario e consente una produzione più sostenibile dal punto di vista energetico.
L’idea di un’alleanza dei metalli nasce dunque da un’esigenza condivisa: proteggere le rispettive industrie da una concorrenza sleale. Ma tra Washington e Bruxelles rimangono divergenze importanti: sulle regole degli aiuti di Stato, sulla destinazione degli investimenti verdi, sulla definizione stessa di “produzione pulita”.
C’è anche un elemento politico. La nuova amministrazione Trump, nel suo secondo mandato, ha riaffermato un approccio protezionista e transazionale, pronto a negoziare concessioni solo in cambio di benefici tangibili. L’Europa, pressata dalla crisi energetica post-Ucraina e dalla deindustrializzazione crescente, non ha molta scelta: o si adatta o rischia di essere tagliata fuori.
Al di là del tecnicismo tariffario, la vera posta in gioco è un’altra: ricostruire una base industriale autonoma, capace di sostenere la transizione verde, la difesa europea, le infrastrutture critiche. L’acciaio e l’alluminio sono alla base delle turbine eoliche, dei treni ad alta velocità, dei carri armati e delle batterie. Senza una filiera interna, il rischio è di dipendere da potenze che usano le materie prime come armi di pressione.
L’alleanza transatlantica dei metalli potrebbe quindi diventare un laboratorio per un nuovo tipo di globalizzazione selettiva: meno concorrenza distruttiva, più cooperazione tra democrazie industriali. Ma per funzionare, dovrà superare le tentazioni nazionalistiche e i giochi di sponda tra Cina, USA e UE.
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