Personalmente, ritengo che, il principio fondamentale dell’umanitarismo è voler essere utili a qualcuno che non si conosce, senza aspettarsi ricompense. Si decide di aiutare persone bisognose semplicemente perché si ritiene che sia la cosa giusta da fare: questo è il principio fondamentale dell’umanitarismo. È ciò che mi ha spinto a diventare membro di un’organizzazione umanitaria e, ancora più, di Medici Senza Frontiere.
Neutralità
Quando si parla di neutralità come principio umanitario, si fa riferimento all’obbligo per gli attori umanitari di non schierarsi in controversie di natura politica, religiosa o ideologica, per poter operare in modo sicuro e accettato da tutte le parti. Tuttavia, se si interpreta questo principio in modo assoluto, si rischia un cortocircuito etico: combattere il razzismo in Sudafrica ai tempi dell’apartheid o dichiararsi solidali con i Rohingya in Birmania andrebbero considerate, paradossalmente, violazioni della stessa neutralità e quindi atti non umanitari. Al contrario, è proprio l’essenza dell’umanitarismo che è in gioco qui. La neutralità intesa come sospensione del giudizio o silenzio su ciò che si vede, si sente e si percepisce, entra in tensione con l’idea che abbiamo del nostro ruolo, come Medici Senza Frontiere. Davanti a politiche migratorie disumane, ad esempio, prendiamo posizioni che sono contrarie alle politiche dei governi europei, e ciò ci mette in una posizione di non-neutralità. Tuttavia, siamo convinti, e credo giustamente, che ciò che facciamo, dal salvataggio in mare all’accoglienza di richiedenti asilo e migranti, sia autenticamente umanitario, e lasciare morire le persone in mare una barbarie. In questo senso, ciò che viene spesso presentato come una violazione della neutralità è, in realtà, un’espressione coerente del principio di umanità: denunciare una barbarie non è prendere posizione politica, ma rifiutare l’indifferenza. Il principio di neutralità, pur centrale per garantire l’accesso alle popolazioni in pericolo, non può essere confuso con il silenzio di fronte alle violazioni. Forse appartiene più al campo della diplomazia che a quello dell’azione umanitaria.
Indipendenza
Il principio di indipendenza è spesso frainteso. È importante ricordare che, sul campo, non siamo indipendenti, né dobbiamo rivendicare di essere un’entità sovrana nei Paesi in cui operiamo. In contesti come il Niger, l’Afghanistan, la Libia o la Palestina, non agiamo come un’entità sovrana, ma come un attore umanitario che negozia la propria presenza con l’autorità locale che esercita il controllo sul territorio, che si tratti del governo riconosciuto o di un movimento di opposizione armata. Rivendicare un’indipendenza “assoluta” da questi interlocutori sarebbe un’illusione: ogni intervento umanitario si basa su un equilibrio delicato di negoziazione, accesso e legittimazione. Se un’autorità ritiene che siamo dannosi, può espellerci, ed è un suo diritto in quanto autorità locale. Non possiamo quindi pretendere di essere indipendenti. Il principio umanitario di indipendenza si riferisce piuttosto alla capacità di agire secondo criteri esclusivamente umanitari, liberi da pressioni o condizionamenti esterni. In questo senso, l’indipendenza finanziaria è uno strumento prezioso ed è fondamentale all’inizio e alla fine di un intervento. All’inizio, perché ci permette di agire subito allo scoppiare di una crisi, senza dover dipendere dai fondi dei donatori istituzionali: disponiamo di risorse finanziarie che ci consentono di agire con tempestività, intervenendo sin dai primi momenti di un’emergenza internazionale, o di un conflitto, anche in contesti in cui per alcuni donatori potrebbe essere troppo delicato o politicamente complesso essere coinvolti. Allo stesso modo, l’indipendenza finanziaria è molto preziosa alla fine di un intervento quando le condizioni operative o etiche non sono più accettabili. Se riteniamo che l’aiuto fornito sia manipolato o finisca per diventare un alibi per politiche inaccettabili, possiamo esercitare questa forma di indipendenza e decidere di ritirarci. E’ accaduto, ad esempio, nei campi di rifugiati ruandesi in Zaire nel 1994 dove l’assistenza umanitaria rischiava di legittimare la presenza di gruppi armati responsabili del genocidio, o in Corea del Nord nel 1999 quando le condizioni imposte dal regime rendevano impossibile un intervento credibile e trasparente, o in Etiopia negli anni ’80, dove l’assistenza era usata come strumento di deportazione forzata. Continuare avrebbe peggiorato le condizioni della popolazione. In questi casi, l’indipendenza non significa isolamento né arroganza, ma capacità di dire “no” quando l’aiuto viene distorto. Allora impegnarsi in un confronto mediatico, appellarsi all’opinione pubblica, cercare di persuadere le autorità a permetterci di operare in condizioni accettabili, senza essere totalmente strumentalizzati al loro servizio diventa un nuovo modo di agire e operare. Se non funziona, ci ritiriamo. All’inizio di un intervento, l’indipendenza ci consente di prendere decisioni in piena autonomia. Nulla ci obbliga ad avviare un’operazione umanitaria né a proseguirla se riteniamo che le condizioni non siano più accettabili. Tra l’avvio e la conclusione di ogni intervento si colloca sempre una fase di dialogo, negoziazione e rispetto delle autorità locali e delle popolazioni coinvolte: non siamo un’organizzazione imperiale, imperialista, o neocoloniale, Ciò che ci guida, e deve guidarci, è sempre il principio di agire secondo criteri umanitari, non politici.
Imparzialità
Il termine imparzialità confonde, perché è spesso usato come sinonimo di neutralità. Un giudice in tribunale deve essere imparziale, così come un arbitro sul campo da calcio: devono essere neutrali nel senso di non avere pregiudizi nei confronti delle due parti, per poter giudicare correttamente. Tuttavia, nella pratica umanitaria, questa nozione di imparzialità ha un significato diverso e molto più concreto, significa agire esclusivamente in base ai bisogni, quindi, è un principio di equità e di proporzionalità, non di distacco o equidistanza, non ha a che fare con la neutralità: ci guida nel dare priorità alle persone con i bisogni più acuti, quelle colpite in modo più grave da una situazione di catastrofe, di crisi grave o di violenza.
Questa, però, è un’affermazione piuttosto generale: nella realtà applicare questo principio non è sempre semplice, quali sono i bisogni più urgenti? Ad esempio, in una situazione di conflitto, dobbiamo dare la priorità ai feriti di guerra oppure alle popolazioni private di qualsiasi possibilità di cura, come i malati cronici? Fornire la medicina per le popolazioni civili o la chirurgia di guerra per i feriti, inclusi i combattenti? Queste scelte non possono essere definite anticipatamente, dipendono dalla valutazione che si fa sul campo, da criteri di opportunità o di fattibilità e spesso richiedono decisioni delicate.
In molte situazioni, la nozione stessa di imparzialità risulta meno rilevante: in caso di terremoto, ad esempio, o quando si avvia una campagna di vaccinazione in tempo di pace. Tuttavia, anche in questi contesti, emerge una riflessione implicita: quali popolazioni consideriamo degne di interventi prioritari rispetto ad altre? E’ comunemente accettato, ad esempio, che si intervenga in via prioritaria sui bambini sotto ai 5 anni, considerati più vulnerabili rispetto a quelli più grandi. Ma questo significa che, di fronte a un bambino di 6 anni, somministrare un vaccino o una razione alimentare sarebbe ingiusto perché dovrebbe essere riservata a un bambino più piccolo? E allo stesso modo, una persona anziana, ha forse meno diritto a ricevere cure mediche, solo per via della sua età? In questi casi, si potrebbe provocatoriamente affermare che, nella pratica, non si tratta di un principio così umanitario, bensì di un criterio di selezione dettato dalla scarsità delle risorse. È una scelta obbligata dovuta a risorse limitate. È così che deve essere concepita.
I principi sono una guida per l’azione umanitaria?
Ecco, quindi, che neutralità, imparzialità e indipendenza sono tutte nozioni discutibili, e si capisce come nessuna di esse, presa singolarmente, possa davvero guidare l’azione umanitaria. Ed è qui che nasce un grande equivoco: molte ONG, talvolta anche MSF, invocano i principi come se fossero una guida infallibile per l’azione, sottintendendo implicitamente “Non siamo noi a decidere, sono i principi, non abbiamo preferenze, né soggettività né bias interpretativi, ci limitiamo a seguirli”. In realtà, questi principi ci servono per presentarci come un’organizzazione guidata dalla volontà umanitaria, per mostrare che mettiamo da parte le logiche politiche, e che le nostre preferenze individuali non sono centrali. Ciò che davvero conta è la nostra volontà di aiutare le persone che si trovano nel bisogno, di essere utili a chi vive in condizioni di estrema vulnerabilità, per consentire loro di sopravvivere o migliorare una situazione enormemente degradata. E’ così, a mio avviso, che dovremmo trattare i principi: prenderli nel loro insieme e non come elementi isolati, senza considerare che ciascuna delle componenti di questa “Santa Trinità” possa essere risolutiva e aiutarci a prendere decisioni difficili.
Prendere posizione
Si prende sempre una posizione, anche quando si tace. Riprendendo l’esempio dell’immigrazione o del razzismo durante l’apartheid in Sudafrica, tacere sarebbe valso a una presa di posizione. Se si tace, si prende la posizione di lasciare che a parlare, al nostro posto, sia l’autorità. Tacere, quindi, significa assumere la posizione di chi detiene il potere. Se non si vuole questo, bisogna parlare. Ma farlo comporta inevitabilmente il rischio di entrare in conflitto con le autorità. Preciso che questa conflittualità non ha mai portato a episodi di violenza. Alcuni spiegano o credono sinceramente che la neutralità serva a proteggersi dagli attacchi di coloro che potrebbero essere oggetto delle nostre critiche o denunce. Tuttavia, se si analizzano gli incidenti di sicurezza che hanno provocato morti o feriti nell’ambito degli interventi umanitari, nessuno di questi è stato causato da una presa di posizione pubblica o dalla rottura del principio della neutralità.
Interrogarci, sempre
Ciò che caratterizza MSF, o quantomeno ciò che dovrebbe caratterizzarla, perché mi sembra una buona prassi non sempre adottata, è la capacità di interrogarsi in modo critico sulle proprie operazioni: perché siamo in un determinato luogo piuttosto che in un altro? Perché ci concentriamo su una certa popolazione piuttosto che su un’altra? Perché stiamo conducendo un certo tipo di intervento sanitario invece di un altro? Conservare costantemente questo senso critico sulla validità del nostro operato è fondamentale. Nel nostro campo è facile cadere nella tentazione di considerarci come il “partito del bene”, come coloro che portano aiuti e quindi al di sopra di ogni domanda o dubbio. Questa mentalità, però, ci priva della capacità di vedere le nostre contraddizioni e, in ultima analisi, ci impedisce di evolvere. Inoltre, sono proprio queste le domande che ci pongono anche le popolazioni a cui ci rivolgiamo, e le autorità con cui ci interfacciamo. Continuare a porcele noi stessi per primi, non solo alimenta la nostra lucidità operativa ma contribuisce a facilitare i rapporti con loro e fonda la nostra stessa legittimità.
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