Donald Trump firma un ordine esecutivo che impone dazi dal 10% al 41% sulle importazioni da decine di partner commerciali degli Stati Uniti, dimostrando di voler proseguire l’escalation di una guerra commerciale globale senza precedenti nella storia moderna. A differenza di quanto annunciato in precedenza le tariffe non entreranno in vigore a partire da oggi ma dal 7 agosto, per dare tempo agli uffici doganali di attrezzarsi, spiegano dalla Casa Bianca, ponendo fine a mesi di contrattazioni, accordi e rinvii. Le tariffe annunciate riflettono infatti le intese stipulate di recente con governi che hanno offerto concessioni favorevoli agli Stati Uniti. Paesi come Bolivia, Ecuador, Islanda e Nigeria vedranno le loro esportazioni soggette a dazi doganali del 15%, mentre altri, tra cui Sri Lanka, Taiwan e Vietnam, saranno soggetti a un’aliquota del 20%. Per l’India, l’aliquota tariffaria sarà del 25% mentre tra i partner a cui Trump ha applicato i dazi più pesanti figura il Brasile, soggetto a un dazio del 50% per il trattamento riservato all’ex presidente Jair Bolsonaro, alleato di Trump, e accusato di aver incitato un colpo di stato. Il Canada invece ha visto aumentare la sua aliquota dal 25 al 35% tra ieri e oggi, dopo aver annunciato di voler riconoscere lo Stato di Palestina. Punita anche la Svizzera con una tariffa più alta di quella dichiarata il 2 aprile, al 39%. Tra gli Stati più penalizzati figurano anche il Sudafrica al 30% e la Serbia al 35%. Così facendo, il presidente Usa è convinto di poter ‘riequilibrare’ un ordine commerciale a suo parere fortemente svantaggioso per gli Usa – generando nuove entrate con cui sostituire gli ingenti tagli fiscali approvati dalla sua amministrazione, e facendo pressione sulle aziende perché producano una maggior quantità dei loro prodotti all’interno degli Stati Uniti. Resta da vedere se il suo azzardo avrà successo: una scommessa il cui esito potrebbe avere gravi conseguenze per l’economia statunitense e non solo.
Cosa cambia per l’Europa?
Nei confronti delle merci provenienti dall’Europa, la Casa Bianca ha confermato un’aliquota del 15%. La scorsa settimana, il presidente aveva firmato un accordo preliminare con l’Unione Europea che stabiliva che la tariffa si sarebbe applicata alla maggior parte dei beni del blocco, tra cui automobili e prodotti farmaceutici, escludendone altri che – come acciaio e alluminio – dovrebbero restare al 50%. Come parte dell’accordo, l’Ue si era impegnata ad acquistare dagli Stati Uniti energia per un valore di 750 miliardi di dollari in tre anni e ha accettato di investire nel paese 600 miliardi di dollari in più rispetto agli attuali. Dopo che diverse capitali europee avevano sollevato perplessità sugli accordi negoziati dalla Commissione, i vertici del blocco hanno lasciato intendere che gli impegni finanziari sarebbero stati meno vincolanti di quanto dichiarato da Washington. Nella versione europea, infatti, si parla di “intenzione” da parte delle imprese a investire almeno 600 miliardi di dollari entro il 2029 in vari settori. Una formula vaga, che non garantisce il raggiungimento dell’obiettivo, poiché le aziende private potranno essere incentivate ma non obbligate a investire. Sul fronte energetico, poi, molti osservatori sottolineano come 750 miliardi di dollari in tre anni renderebbero l’Ue dipendente dagli Stati Uniti per oltre il 70% delle importazioni energetiche — una prospettiva giudicata insostenibile e rischiosa. Inoltre, incrementare drasticamente le importazioni di gas naturale liquefatto per soddisfare l’intesa appare poco realistico, visto il calo della domanda di gas in Europa e l’impossibilità per il mercato di assorbire tali volumi. Non da ultimo, per rispettare l’accordo, il Vecchio Continente dovrebbe triplicare le importazioni di petrolio, carbone e GNL dagli Usa: l’esatto contrario di quanto previsto dal Green Deal europeo.
Trump frena contro la Cina (per ora)?
Nel nuovo ordine esecutivo firmato da Donald Trump non ci sono novità sui dazi nei confronti della Cina. Anzi, la Casa Bianca ha confermato la tregua già in vigore, in attesa della scadenza del 12 agosto, quando dovrebbe arrivare un nuovo accordo tra Washington e Pechino. Mentre decine di altri Paesi stanno per subire l’aumento delle tariffe americane, il confronto tra le due superpotenze procede su binari separati. Questa settimana, alti funzionari cinesi e statunitensi si incontreranno a Stoccolma per proseguire i negoziati. L’intesa raggiunta a maggio — e confermata dall’ordine esecutivo — aveva sospeso per 90 giorni la raffica di aumenti decisa in primavera, che ad aprile aveva portato le imposte commerciali al 145%. A giugno c’è stato un nuovo round di colloqui, e ora il conto alla rovescia verso metà agosto è iniziato. Attualmente gli Stati Uniti applicano una tariffa base del 30% sui prodotti cinesi. Trump ha lasciato intendere che, in mancanza di un’intesa, i dazi potrebbero tornare a salire, ma ha anche assicurato che non si tornerà ai livelli record di qualche mese fa. Nel frattempo, però, è entrata in vigore una nuova misura anti-elusione: tutte le merci che le dogane americane considereranno “trasbordate” — cioè spedite in un altro Paese, riconfezionate e poi inviate negli Stati Uniti per aggirare i dazi — saranno soggette a una tariffa speciale del 40%. Il riferimento, non troppo velato, è alle merci prodotte in Cina ma fatte passare attraverso Paesi terzi per evitare i nuovi balzelli.
Cresce la paura di una nuova era protezionista?
Gli investitori sapevano da settimane che oggi le nuove misure commerciali di Trump sarebbero entrate in vigore. Anzi, nel suo ordine esecutivo, che le posticipa di una settimana, la Casa Bianca ha mostrato più moderazione di quanto fatto in passato, abbassando molte aliquote tariffarie. Eppure, questa mattina, le borse hanno registrato un calo generalizzato e secondo i dati pubblicati venerdì dal Bureau of Labor Statistics, a giugno gli Stati Uniti hanno registrato la crescita dell’occupazione più debole degli ultimi quattro anni. Gli analisti finanziari ipotizzano che l’agenda e le politiche economiche di Trump possano iniziare a incidere tanto sui mercati finanziari quanto su quello del lavoro. Finora, la politica commerciale dell’amministrazione è stata costellata di colpi di scena: ad aprile il presidente aveva sbalordito il mondo annunciando nuovi ingenti dazi sulle importazioni, per poi sospenderne la maggior parte a causa del conseguente panico finanziario generato dal rischio di una recessione globale. Nei quattro mesi successivi, la Casa Bianca ha negoziato accordi e annunciato misure, svelato una manciata di accordi e imposto dazi unilaterali, il tutto senza enormi sconvolgimenti sui mercati. Intanto, la scadenza per l’entrata in vigore dei dazi veniva puntualmente prorogata. Ma oggi, con l’avvicinarsi definitivo del termine, la realtà dei dazi inizia a farsi sentire, consolidando la prospettiva di una rottura con decenni di libero scambio e l’inizio di una nuova era protezionistica.
Il commento
Di Moreno Bertoldi, Senior Associate Research Fellow
“Il giorno dei “dazi reciproci” (quasi) definitivi statunitensi è infine arrivato. Oggi si chiude una fase, quella della grande incertezza generata dall’indeterminatezza del livello di questi dazi, e se ne apre un’altra, che influenzerà la dislocazione delle catene dell’offerta, le strategie di investimento da e verso gli Stati Uniti e la dinamica dei prezzi e delle quantità dei beni soggetti ai dazi. Tuttavia, sarebbe un errore pensare che in questa nuova fase l’incertezza si sia dissipata, non solo perché Trump intende continuare a utilizzare i dazi per perseguire obiettivi politici (si vedano i recenti casi del Brasile e del Canada), ma anche perché è molto probabile che la facilità con cui le controparti si sono piegate ai desiderata americani spingerà gli Stati Uniti ad avanzare nuove richieste. Di conseguenza, il 1 agosto 2025 sancisce non l’inizio della fine, ma solo la fine dell’inizio delle guerre economiche dell’amministrazione Trump”.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link