Up Day, il welfare che cambia le persone (e le imprese)


Oggi le imprese non sono più solo luoghi di produzione, ma spazi dove si costruisce – o si può costruire – benessere. Addirittura felicità. Dove si intrecciano scelte economiche, ambientali e sociali. Up Day, società benefit dal 2023, e pioniere nei servizi di welfare aziendale e buoni pasto, è una realtà che ha deciso di stare su questa frontiera. Up Day rappresenta in Italia Upcoop, anch’essa soscietà benefit in Francia, presente in 22 Paesi in 4 continenti, +3000 dipendenti e 24 milioni di utilizzatori.
La sua missione si è evoluta in questi anni: dal supporto al potere d’acquisto, all’impegno per il consumo responsabile e l’impatto sociale. Abbiamo incontrato Paolo Gardenghi, Responsabile Welfare e RSI, per ragionare con lui su come cambia il welfare aziendale e dell’esperienza di società benefit.

Paolo, oggi si parla sempre più di benessere al lavoro. Ma ha senso parlare di felicità?

“Ho sempre avuto una certa riluttanza nell’usare il termine felicità in azienda. Mi sembrava un concetto troppo potente, quasi fuori luogo. Poi, guardando le ricerche (quest’anno abbiamo supportato l’Osservatorio BenEssere Felicità) e i nostri stessi dati, ho capito che se lo intendiamo appunto come well-being, come realizzazione personale, allora sì, possiamo anche parlare di felicità. Nel concreto, conta poco come lo chiami: conta ciò che oggi le persone chiedono al datore di lavoro, cioè di poter essere se stesse, di potersi realizzare nel contesto lavorativo. Questo è benessere, questo può essere felicità”.
E non sono solo i giovani a sentire questa esigenza. “Lo vediamo anche quando facciamo recruiting, anche professionisti senior a volte si candidano per ricoprire posizioni junior, sono disposti a fare un passo indietro anche in termini di compensi pur di ‘fare qualcosa che sia utile alle persone’. C’è più prepotente oggi il desiderio di trovare nel lavoro una corrispondenza con i propri valori, non da una parte il lavoro e poi dall’altra il volontariato, si cerca una convergenza. Per la mia generazione era quasi un lusso questo tipo di approccio, oggi non è un tabù.”

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Un welfare che non impone, ma abilita

Diventando società benefit nel 2023 Up Day ha fatto una scelta precisa che si riflette anche nel modo di intendere un concetto come il ‘welfare’. Solo in Italia ha oltre 120 dipendenti, raggiunge 30.000 aziende clienti e 1.3 milione di beneficiari, collabora quotidianamente con 150.000 partner affiliati, nel 2024 ha realizzato un 1,1 miliardi di emissione con risultati sempre in crescita.
Con questi numeri può decisamente fare la differenza e infatti mette oggi molto impegno nell’orientare i propri utenti verso i consumi responsabili. Ma con il suo garbo.
Gardenghi rivendica un’idea liberale e non paternalistica del welfare:
“Molti distinguono il welfare “nobile”, una concezione un po’ paternalistica del welfare, in cui solo alcune prestazioni vengono considerate “degne” o “serie” di rientrare nel perimetro del benessere aziendale o pubblico, ad esempio salute, previdenza, istruzione vengono considerate le “vere” priorità, mentre altri ambiti (cura personale, tempo libero, benessere psicologico, mobilità sostenibile, cultura, etc.) sono visti come “accessori” o addirittura superflui.
Si decide dall’alto cosa è bene per le persone. Per me, il welfare è dare strumenti e libertà di scelta, non imporre un’etica. Anche prendersi cura di sé, l’estetica, il fitness, altre cose apparentemente futili possono rappresentare il benessere per alcune persone. Anche sul fronte della sostenibilità, il rischio potrebbe essere quello di scivolare in un atteggiamento di questo tipo, da cui ci dobbiamo guardare: il nostro compito è informare, offrire opportunità, contribuire a creare consapevolezza, non giudicare o calare dall’alto.”

Il buono pasto diventa strumento di cambiamento

“Siamo emettitori di titoli (buoni pasto, buoni acquisto, buoni spesa, ecc), e da sempre la nostra priorità è che siano spendibili nel modo migliore. Perché se un’azienda ti dà un buono e tu non sai dove spenderlo, è un disastro. Lavoriamo da 40 anni per garantire massima libertà e qualità di spesa. Oggi tutto questo si è allargato alla sostenibilità, cerchiamo di sensibilizzare sulla qualità alimentare, sui prodotti del territorio, sui prodotti a minore impatto ambientale. Ma poi è l’utente che sceglie dove spendere il suo buono e dobbiamo fornire un ventaglio completo di possibilità, non dimentichiamoci che oggi più che mai i buoni servono per aumentare il potere d’acquisto e la qualità della vita dei lavoratori dipendenti e dei cittadini.
In questo cammino verso la sostenibilità, un punto di svolta è stato la la digitalizzazione: prima noi ci interfacciavamo solo con il cliente-datore di lavoro che comprava i buoni, cartacei, e li dava ai dipendenti. Oggi, tramite la nostra app, possiamo dialogare con i singoli, possiamo spingerci oltre e usare questa relazione per stimolare scelte più consapevoli.
Come? Selezionando esercizi commerciali attenti alla qualità, ai prodotti stagionali, all’inclusività alimentare, e informando gli utenti su nutrizione e impatti ambientali. Il nostro approccio non è prescrittivo, ma informativo. La libertà di scelta resta centrale.”

L’impatto? Non è facile misurarlo, ma ci si può orientare

Per una società benefit, tema importante è la misurazione dell’impatto sulle finalità di beneficio comune, divulgate poi attraverso la relazione d’impatto (qui quella 2025 di Up Day).
Gardenghi è realista: “L’impatto è difficile da misurare davvero. Nella nostra relazione d’impatto attualmente raccontiamo più l’approccio che i numeri. Esistono metodi sofisticati che aiutano, come la Theory of Change, ma talvolta sono piuttosto complicati, credo che servano strumenti più semplici, indicatori solidi ma accessibili, soprattutto per le aziende più piccole. Su questo tema le società benefit devono ancora lavorare. Come molti della mia generazione, io vengo dalla cultura cooperativa, quindi il senso del bene comune mi è familiare, perciò vedo il modello Benefit assolutamente interessante, ma non semplice. Alle startup che spesso incontro e mi chiedono un consiglio dico, per esempio, di limitare il numero delle finalità di beneficio. Altrimenti la misurazione diventa un’attività troppo onerosa e sbilanciata che rischia di distogliere risorse dalle azioni concrete.”

In conclusione, come lo cambia il mondo Up Day?

“Ci piace pensare che stiamo cambiando qualcosa. Lo facciamo internamente, migliorando le condizioni di lavoro e coinvolgendo sempre più i collaboratori, anche a livello di gruppo stiamo cercando di riproporre il concetto di cooperazione tra persone, tra imprese, tra Paesi. Una direttrice che a me piace molto. Sul fronte esterno, il nostro impatto coincide anche con l’allargamento del nostro business con la consapevolezza che l’impatto non è solo fare del bene, ma fare in modo che il benessere di uno non danneggi qualcun altro. E questo, nel nostro lavoro quotidiano, è una sfida che ci guida ogni giorno.”
“Ma il primo passo in questo cambiamento culturale è stato cominciare a porsi la domanda: qual è il nostro impatto? Questa domanda, da sola, cambia il modo in cui fai le cose.”

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