Più che un governo, una cacofonia permanente sui dazi, mentre Meloni tace in attesa di vedere il risultato di una partita in cui non ha un ruolo, tanto meno quello di «pontiera». Sul non-accordo sui dazi ci sono almeno quattro posizioni: c’è chi vuole usare almeno 14 miliardi di soldi non spesi del Pnrr, e un’altra decina stornati dai fondi per la coesione, e regalarli alle imprese come indenizzo per i profitti che non realizzeranno a causa dell’«amico» Trump. C’è chi invece come il ministro al Pnrr Tommaso Foti ieri ha sostenuto che, finché non si hanno notizie certe su cosa è stato deciso a proposito dei «dazi al 15%», è inutile usare soldi che comunque dovranno essere autorizzati dalla Commissione Ue. Ed è tutto da vedere se lo farà.
Inoltre c’è il vicepremier leghista Matteo Salvini che accetta l’accordo che ancora non c’è, attacca la Commissione Ue e contesta il patto di stabilità, lo stesso che ha firmato il suo ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti. «Sarebbe ragionevole anche se la von der Leyen azzerasse il Patto di stabilità – ha detto – alla luce di due guerre in corso e dell’ipotesi di uno scontro commerciale» che rendono in questo momento «i vincoli e i limiti imposti dal Patto di stabilità fuori dal mondo». In questa parodia che è la politica italiana si staglia il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso che – ligio alla linea «pagare il dazio a Trump è giusto» – ieri ha parlato di un «accordo importante e significativo che evita l’escalation e quindi la guerra commerciale». Ora è prioritaria, secondo Urso, la tutela del Made in Italy, «dalla componentistica auto alla farmaceutica, dalla microelettronica alla meccanica, dai vini all’agroalimentare».
Poi c’è l’altro vicepremier, Antonio Tajani di Forza Italia, che ipotizza l’uso dei soldi non spesi del Pnrr parla di futuribili scenari come il ritorno della Banca Centrale Europea a tagliare i tassi di interesse a zero e eliminare il costo del denaro che si aggiungerà ai dazi di Trump. La Bce ha tutt’altra linea e non ascolterà Tajani. Anzi, potrebbe persino aumentare i tassi e opprimere ancora di più i salari a favore dei profitti. Quelli che il governo intende garantire una volta ricevuta la punizione di Trump. La guerra commerciale che è già in atto, e non è stata affatto sventata dalla Commissione Ue, è una guerra di classe che si abbatte sui salari sia europei che americani.
In questo penoso spettacolo in cui la politica nazionale, e non solo il governo, gira a vuoto un qualche dato preciso almeno c’è. Il governo Meloni non è capace di spendere, ai ritmi stabiliti, l’82% delle risorse stanziate dal Pnrr per la Sanità. Lo ha sostenuto ieri il monitoraggio della fondazione Gimbe. Tra i target in «netto ritardo» Gimbe segnala la riorganizzazione dell’assistenza territoriale e il potenziamento dei posti letto in terapia intensiva e semi-intensiva. Nel primo caso sono operative 164 strutture contro le 1.038 previste al 30 giugno. Nel secondo caso il Pnrr prevede l’attivazione finale di di 2.692 posti letto di terapia intensiva e 3.230 di semi-intensiva. Al 21 marzo risultano attivati, rispettivamente, 890 e 1.199 letti. «È surreale che a cinque anni dalla pandemia l’Italia non sia ancora riuscita a completare un’infrastruttura essenziale per fronteggiare future emergenze sanitarie» ha detto il presidente Gimbe Nino Cartabellotta. In realtà si sta preparando a tagliare la spesa sociale per finanziare il piano di riarmo della Nato e della Commissione Ue. Ancora non sa come, ma l’indicazione che viene da Bruxelles e da Washington è la stessa
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