Dazi, Meloni sorvola sul ricatto americano e cerca i soldi per pagare l’Impero


Mentre il primo ministro francese Bayrou diceva che l’Unione europea ha fatto un «atto di sottomissione» a Trump sui dazi, e il cancelliere tedesco Merz si è detto «insoddisfatto» dall’intesa perché è un «danno considerevole» per l’economia del suo paese, il governo Meloni ha rinunciato anche alle recriminazioni. Meglio la subalternità alla Casa bianca che una guerra commerciale. In fondo è la linea della Commissione Ue guidata da Ursula von der Leyen. E se fino a due settimane fa il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti diceva che i dazi al 10% erano «ragionevoli, e andare oltre sembrava «insostenibile», oggi al governo dicono che è «ovvio che nessuno è contento di questa intesa che avrà comunque un impatto, ma al 15% si arriva partendo dal 4,8% di dazi che già sono in vigore». Per il ministro degli Esteri Antonio Tajani è stata «la migliore trattativa possibile». Si dice sempre «fare di più, ma forse era difficile» ha chiosato il ministro dell’ambiente Gilberto Pichetto Fratin secondo il quale la candidata democratica alla Casa Bianca «Kamala Harris sarebbe stata per noi più conveniente».

LA CHIAVE è stata data dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni ieri a Addis Abeba: evitare di commentare il contenuto politico del ricatto Usa e limitarsi a constatare che, al momento, un accordo scritto non c’è e lo si aspetta per il primo agosto. «Non posso giudicare il merito se non conosco i dettagli – ha detto Meloni – C’erano dei settori che erano particolarmente sensibili, come la farmaceutica e le auto, e mi pare siano all’interno del 15%. Bisogna verificare quali siano le possibili esenzioni, in particolare su alcuni prodotti agricoli, quindi ci sono una serie di elementi che mancano». «Giudico positivamente il fatto che si sia raggiunto un accordo – ha aggiunto Meloni – Io ho sempre pensato, e continuo a pensare, che un’escalation commerciale tra Europa e Stati Uniti avrebbe avuto conseguenze imprevedibili e potenzialmente devastanti».

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FARE IL PESCE IN BARILE e sopire le inquietudini di tutti, dai sindacati alle associazioni di impresa e dei consumatori: questa è la linea. Serve a Meloni a sviare la strategia di accerchiamento dell’Ue da parte di Trump: «Non so esattamente a cosa ci si riferisca quando si parla di investimenti, acquisto di gas e compagnia – ha detto – Questo non sono in grado di valutarlo finché non ho i dati chiari». Meloni ha fatto finta di ignorare i tre i pilastri del patto euro-americano: oltre al «tetto» tariffario unico del 15% sui dazi (che non dovrebbe aggiungersi alle tariffe esistenti), ci sono gli acquisti di gas liquido americano per 750 miliardi di dollari in tre anni e investimenti privati per 600 miliardi di dollari nell’economia statunitense.

SENZA CONTARE il 5% di Pil in spese militari che il governo italiano, tra gli altri, ha accettato di versare anche nelle casse del complesso militare-industriale statunitense, via Nato. E poi l’esenzione dalla global minimum tax decisa dal G7 e la non applicazione della digital service tax sulle Big Tech statunitensi, tanto care a Trump. Meglio derubricare l’atto di sottomissione a un fatto inevitabile e evitare di considerare questo esito come il paradossale inveramento della missione che si è data Meloni, quello di fare da «ponte» tra Bruxelles e Washington. Più che un «ponte» questo sembra un modo autolesionista per pagare dazio all’Impero. Nel mondo delle estreme destre tutto si paga. L’amicizia con Trump è particolarmente costosa.

C’È SPAZIO anche per il velleitarismo e l’improvvisazione. Tajani ieri era molto attivo al punto che a qualcuno dei leghisti è sembrato volere sostituire Giorgetti nel ruolo di ministro dell’economia. Ha convocato alla Farnesina le associazioni di imprese e ha proposto alla Banca Centrale Europea di ridurre il costo del denaro per bilanciare il rapporto euro-dollaro che, per Confindustria, aggraverà il conto dei dazi (un 13% si dice, oltre il 15%). Tajani ha prospettato addirittura un nuovo «quantitative easing» della Bce. Ipotesi che sembrano lontane dalla strategia scelta da Christine Lagarde negli ultimi anni.

INDENNIZZARE LE IMPRESE dalle ancora futuribili perdite di profitti causate dai dazi dall’«amico» Trump: è a questo che il governo sta pensando. Ma anche su questo capitolo sconta i propri limiti. Gli «aiuti», quantificati in almeno 20 miliardi di euro, sono stati già promessi poco dopo il 2 aprile scorso quando Trump ha celebrato il suo «Liberation Day». Ieri Meloni, Tajani e altri hanno chiesto a Bruxelles di stanziare questi soldi. Potrebbero arrivare dalle ingenti quote di Pnrr non spese (si parla di 14 miliardi), oppure da una rimodulazione dei fondi di coesione (11 miliardi). Bruxelles dovrebbe dare il via libera a un’operazione di questo tipo, giudicata più praticabile di un’altra richiesta di un fondo comune che non sembra essere destinata a maggiore successo delle altre. Sembra dunque esclusa la possibilità di cercare questa, o altre cifre, dal bilancio. Al momento è stata comunque negata ogni «manovra correttiva» prefigurata dalle opposizioni.

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