Il decimo Report italiano sul Crowdinvesting del Politecnico di Milano (lo trovi qui per intero www.osservatoriefi.it/efi/download/10-report-italiano-sul-crowdinvesting/) con cui ogni anno viene preso il polso della situazione del crowdfunding in Italia parla di un settore in difficoltà, con una raccolta complessiva in calo del 14% nel 2024. Nonostante ciò, emergono segnali diversi a seconda delle tre principali forme di crowdfunding: equity, lending e immobiliare che, peraltro, si interseca con le altre due. Visto che il cui livello di rischio è, ovviamente, diseguale, le vedremo una ad una.
L’equity crowdfunding mostra una raccolta stabile, ma con un calo marcato nei progetti non immobiliari e una crescente predominanza di operazioni nel real estate. Le startup innovative perdono centralità, mentre aumentano i veicoli d’investimento e le PMI tradizionali. Tuttavia, i risultati post-campagna restano spesso deludenti e solo il 4-5% delle imprese raggiunge o supera i target promessi, ci torniamo tra poco.
Nel lending crowdfunding la raccolta attraverso minibond crolla del 73% e anche i prestiti diretti, soprattutto nel comparto immobiliare, mostrano segni di debolezza. Il settore soffre per l’assenza di garanzie, un quadro normativo complesso e crescenti tassi di insolvenza, che ne mettono in discussione la sostenibilità.
Il real estate crowdfunding, al contrario, continua a trainare il mercato. Nonostante una leggera flessione, resta il segmento più dinamico. Tuttavia, il rischio di una eccessiva concentrazione settoriale è concreto, visto che pesa molto sia nell’ambito equity sia in quello dei prestiti. Per ciò che pensiamo sul mondo degli immobili in generale vai qui.
Focalizziamoci sull’equity crowdfunding
Chi investe in equity crowdfunding spesso è mosso dalla speranza di partecipare alla crescita di una giovane impresa, magari con l’ambizione di cogliere in futuro una plusvalenza significativa. Tuttavia, i dati contenuti nel decimo Report italiano sul Crowdinvesting un po’ di preoccupazione la destano e fanno riflettere.
Dopo tre anni dalla raccolta, più di un terzo delle imprese finanziate presenta ricavi annui inferiori a 100.000 euro. Ciò significa che, al di là delle promesse dei business plan, molte aziende non riescono a sviluppare un’attività economicamente sostenibile, almeno nel medio termine.
Il rischio, per l’investitore, è duplice. Da un lato, l’elevata illiquidità dell’investimento: la quasi totalità delle campagne non prevede la possibilità di disinvestire se non in caso di eventi straordinari come un’acquisizione o una quotazione in Borsa. Ma questi casi sono rarissimi: su oltre mille emittenti che hanno chiuso con successo una prima campagna, solo 12 sono approdate al mercato azionario, 22 sono state acquisite o fuse in altre imprese, 57 progetti immobiliari sono stati chiusi con successo e 651 erano ancora attive. Dall’altro lato, il rischio di perdere tutto è concreto: 115 di queste imprese sono già state messe in liquidazione o fallite (un’occhiata a pag. 28 del report aiuta a integrare questi dati in un colpo d’occhio efficace).
Il dato sull’Ebitda, cioè l’utile industriale prima di spesare la quota parte dei costi pluriennali, è altrettanto eloquente: oltre metà delle aziende rimane in perdita anche tre anni dopo. Questo scenario impone al piccolo investitore di adottare una logica prudente e consapevole. Il crowdfunding può essere uno strumento valido di diversificazione, ma non è privo di insidie. I numeri del report segnalano chiaramente che non basta una campagna di raccolta ben riuscita per garantire un ritorno: è fondamentale valutare con attenzione i fondamentali dell’impresa, la credibilità del business plan e le reali prospettive di sviluppo.
Per questo ribadiamo le solite linee di attenzione quando partecipate all’equity crowdfunding: scegliete solo progetti che capite bene, non mettete mai più di una cifra minima in un singolo progetto, siate pronti a non rivedere indietro i soldi per anni, tenete conto sempre del rischio di perdere tutto.
Due parole sul lending crowdfunding
Discorso analogo vale anche per chi fa lending crowdfunding, dove i dati sulle insolvenze sono molto variabili e non standardizzati, per cui l’evidenza vale più a livello di aneddoto. Su questo punto è, quini, interessante leggere direttamente i valori citati a pagina 41 del report. Per EvenFi si parla di un 17,69% di insolvenze, per Recrowd di un 9,26% del totale, e poi abbiamo i dati di Re-Lender (14,94% sui prestiti degli ultimi 3 anni), Crowdlender (10,14%) e Ener2Crowd (1,61%). Non ci paiono valori particolarmente alti, se pensiamo che gli interessi (lordi) mediamente superano il 10%, ma ricordano l’importanza di diversificare un investimento che è, comunque, illiquido.
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