I giovani italiani: pochi, scontenti e dimissionari


Calo delle nascite, fuga verso l’estero, scarsa voglia di metter su famiglia e Great Resignation: i giovani italiani sono sempre meno numerosi e sempre più insoddisfatti.

Il record nazionale di nascite è del 1964, quando alle porte degli italiani bussarono 1.035.207 cicogne, tra fagotti rosa e azzurri.

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Nonostante politica ed economia traballassero, da Nord a Sud si guardava al futuro con ottimismo, si comprava usando rate e speranza e soprattutto si facevano figli, tanti, contribuendo al baby boom generale.

Un altro mondo, un’altra vita, tanto che adesso, 61 anni dopo, è tempo di registrare l’ennesimo record negativo perché gli Indicatori demografici Istat raccontano di come, nel 2024, in Italia siano nati soltanto 370mila bebè, 9.890 in meno rispetto al 2023.

Un poco invidiabile primato che s’aggiorna continuamente, se si considera che nel 2022 le cicogne avevano volato 393.333 volte, nel 2021 invece 399.431, 404.892 nel 2020 e 420.084 nel 2019.

Nel 2008 addirittura in 576.659 occasioni. E così l’Italia non solo ha i capelli più bianchi (46,8 anni di età media), ma ogni anno perde persone, perché per sei che nascono ne muoiono 11.

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Il Rapporto annuale Istat 2025 al primo gennaio ha contato 58 milioni e 934mila individui, 37mila in meno del 2023 mentre dieci anni fa ce n’erano 60.665.551.

L’Istituto prevede che saremo 54,8 milioni nel 2050, tra i quali appena l’11,2% bambini (0-14 anni) e il 34,9% over 65. Nel 2040, ancora, si pronostica che il 18,4% degli uomini e il 22,4% delle donne vivranno senza figli o compagni.

Meglio soltanto della Bulgaria

Perché tra le cause di quest’irrefrenabile caduta della natalità c’è anche la diminuzione dei potenziali genitori, con in particolare la popolazione femminile in età da parto (15-49 anni) che è passata dai 14,3 milioni del 1995 agli 11,4 milioni del 2025.

E quando si partorisce lo si fa sempre più tardi, con un’età media oggi di 32,6 anni ma destinata a crescere. Ancora, ogni donna italiana ha in media 1,18 figli (1,19 al Nord, 1,12 al Centro, 1,20 al Sud) quando invece l’Unione europea registra 1,38 e il primato, della Francia, è di 1,66.

Ne risulta che l’Italia è il Paese comunitario con la più bassa percentuale di bambini (0-14 anni): 11,9% contro i 14,6% di media 2024 Ue.

Non va molto meglio neppure con l’intervallo 20-34 anni: con il 15,5% sul totale siamo penultimi, meglio soltanto della Bulgaria (14,5%).

I giovani d’oggi

Che l’Italia sia sempre meno un Paese di giovani, lo dicono però anche le analisi qualitative, non soltanto i numeri. Perché l’Istat ci spiega anche che oltre i 2/3 dei 18-34enni vive coi genitori e che nel 2023 sono espatriati in 21mila tra i 25 e i 34 anni, il 21,2% in più rispetto al 2022 e a fronte di soltanto 6mila rientri. Tra tutti, poi, soltanto il 70% si vede genitore.

Per quanto invece riguarda il lavoro, nel 2022 gli imprenditori con meno di 35 anni gestivano l’11,8% delle imprese italiane, mentre gli over 65 lo facevano per il 13,5% e addirittura fino al 41,5% per le aziende attive da più di trent’anni.

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Se poi si considerano i dipendenti, quelli con almeno 55 anni superano la metà del totale nel 31,2% delle imprese e la larghissima maggioranza di queste non ha under 35. E se anche nel 2024 è proseguita la crescita degli occupati, la maggior parte delle nuove assunzioni ha riguardato ultracinquantenni.

Risultato? Un’azienda su tre (30,2%) è in condizione di criticità per mancanza di ricambio generazionale. E le altre, quelle che i giovani in organico li hanno, fanno sempre più i conti con la loro insoddisfazione e un nuovo fenomeno che sta rendendo insufficienti i classici strumenti d’ingaggio e fidelizzazione (stipendio certo, contributi).

Non sono più disponibile

È il fenomeno della ‘Great resignation’, le ‘Grandi dimissioni’, la tendenza economica per cui tanti dipendenti, soprattutto tra i 30 e i 45 anni, si dimettono volontariamente dal posto di lavoro.

Registrata per la prima volta nel 2021 dall’Ufficio del lavoro americano sull’onda della pandemia è stata poi monitorata anche in Europa. Nel 2022 al tema ha dedicato un interessante studio il centro ricerche dell’Associazione italiana direzione personale (Aidp), che ha intervistato 600 direttori del personale per definirne le caratteristiche.

Ne è emerso che il 60% del campione analizzato aveva avuto a che fare nella sua azienda con le dimissioni volontarie, per il 70% nella fascia tra i 26 e i 35 anni. E che le figure professionali più coinvolte erano gli impiegati, poi i ‘quadri’ e in terza posizione i tecnici specializzati.

Il fenomeno è continuato a lievitare e nello scorso anno, secondo i dati Inps, ha riguardato in Italia 1.238.002 lavoratori a tempo indeterminato, qualcuno in meno rispetto al 2023 (1.272.872) ma molti di più dello stesso 2021 (777mila) e soprattutto in linea con un trend ormai da anni rilevante, in particolare nei settori commercio, turismo, marketing, digitale ma sempre più nella sanità.

Nemmeno i professionisti sono immuni all’abbandono volontario. Perché i giovani d’oggi hanno cambiato le loro priorità e rimpiazzato il mito del posto fisso e della poltrona a ogni costo col desiderio di un miglior equilibrio vita-lavoro.

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Si cambia, certo, anche per un compenso superiore o per un incarico migliore, ma la grande novità è che non ci si accontenta più del salario ma si chiede all’azienda opportunità, rispetto delle proprie competenze e, soprattutto, un ambiente non tossico che salvaguardi la serenità fuori dall’ufficio.

Sempre più aziende, ancora sicure di sé dal pulpito dell’offerta di uno stipendio certo (magari minimo) e di un contratto (magari di 5 mesi…) per una posizione generica “che poi si vedrà”, si sentono rispondere da potenziali candidati “questo non fa per me” oppure dire dai propri dipendenti “non sono più disponibile”.

L’articolo originale è stato pubblicato sul numero di Fortune Italia di luglio-agosto 2025 (numero 6, anno 8)



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