Tassa UE sulle imprese con oltre 100 milioni di ricavi: stangata di un miliardo l’anno per l’Italia


Alla fine arrivò la stangata per l’Italia: un miliardo di euro l’anno. Il motivo? Arriva la tassa UE sulle imprese con oltre 100 milioni di ricavi. La Commissione Europea, nel presentare il suo ambizioso bilancio per il periodo 2028-2034, ha proposto una misura che, seppur definita contributo, sta generando non poca preoccupazione tra le imprese del continente: una nuova tassa per le realtà con ricavi superiori ai 100 milioni di euro. L’allarme è stato lanciato da Unimpresa, che ha delineato un quadro preoccupante per il tessuto produttivo nazionale, evidenziando i rischi per gli investimenti, la competitività e la tenuta delle aziende più dinamiche.

Tassa UE sulle imprese: batosta Italia

La proposta, volta a finanziare le ingenti spese previste nel bilancio settennale dell’Unione, stimato in circa 2.000 miliardi di euro, solleva interrogativi significativi sulla sua reale natura e sulle sue potenziali ricadute economiche. Per l’Italia, in particolare, l’ipotesi di questa nuova imposta si traduce in una stangata di notevole entità, con stime che parlano di quasi un miliardo di euro l’anno, cifra che potrebbe addirittura raddoppiare in scenari meno ottimistici.

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Finanziare il bilancio UE 2028-2034

Per comprendere appieno la portata di questa proposta fiscale, è fondamentale inquadrarla nel contesto del bilancio pluriennale dell’Unione Europea. La Commissione sta lavorando a un piano finanziario a lungo termine che dovrà sostenere le politiche e gli investimenti chiave per i prossimi anni, dall’innovazione digitale alla transizione ecologica, dalla coesione territoriale alla sicurezza. Il bilancio 2028-2034 si preannuncia come uno strumento cruciale per affrontare le sfide future e consolidare il ruolo dell’Europa a livello globale. Tuttavia, l’ammontare di risorse necessarie è imponente, e la ricerca di nuove fonti di finanziamento è diventata una priorità. In questo scenario, la tassa sulle grandi imprese viene presentata come una soluzione per diversificare le entrate e alleggerire il carico sui contributi nazionali, tradizionalmente la principale voce di finanziamento del bilancio UE. L’idea è quella di far contribuire in modo più diretto le realtà economiche che beneficiano del mercato unico e delle politiche europee.

Le proiezioni di Unimpresa 

Secondo l’associazione, l’imposta si applicherebbe a circa 3.460 società italiane che superano la soglia dei 100 milioni di euro di ricavi. L’ammontare del prelievo dipenderebbe direttamente dall’aliquota applicata sul fatturato. In uno scenario di aliquota dello 0,5%, valore che Unimpresa considera coerente con il gettito complessivo di 6,8 miliardi di euro l’anno stimato dalla Commissione Europea per tutti i paesi membri, il costo per le imprese italiane si aggirerebbe intorno ai 900 milioni di euro annui. Questa cifra, già di per sé significativa, rappresenta un onere aggiuntivo non indifferente per le aziende. Tuttavia, il pericolo maggiore risiede nella possibilità che l’aliquota possa essere innalzata. Unimpresa avverte che in ambito tecnico si è già discussa un’aliquota dell’1%. In questo caso, il costo per le imprese italiane raddoppierebbe, raggiungendo la vertiginosa cifra di 1,8 miliardi di euro all’anno. Un simile incremento avrebbe conseguenze ben più gravi, mettendo a dura prova la liquidità e la redditività di molte aziende, anche le più solide.

Paolo Longobardi, presidente di Unimpresa, ha espresso chiaramente la posizione dell’associazione, denunciando i limiti di una tassa sul fatturato: “Così si corre un rischio non solo fiscale, ma strategico. Una tassa sul fatturato non tiene conto del ciclo economico, della redditività effettiva, né della struttura finanziaria delle aziende”. Questa è la critica centrale mossa alla proposta: un’imposta basata sul fatturato ignora elementi fondamentali della salute economica di un’impresa. Una società può avere un fatturato elevato ma margini di profitto risicati o trovarsi in una fase di investimenti massicci che riducono temporaneamente la redditività. Applicare un’imposta su un indicatore così grezzo come il fatturato significa penalizzare indiscriminatamente, senza considerare la capacità effettiva di contribuire.

Che botta

Longobardi ha proseguito sottolineando che l’imposta “colpirebbe indiscriminatamente società ad alta intensità di capitale e a margini bassi, scoraggiando investimenti, riducendo la competitività e favorendo ristrutturazioni difensive o delocalizzazioni.” Questo è il timore più grande: che una tale tassa possa erodere la capacità di investimento delle imprese, frenando la crescita e l’innovazione. Le aziende, specialmente quelle che operano in settori ad alta intensità di capitale, come l’industria manifatturiera, o quelle che lavorano con margini operativi sottili, si troverebbero ad affrontare un onere aggiuntivo difficile da assorbire. La conseguenza più nefasta potrebbe essere la riconsiderazione delle strategie di investimento, con una preferenza per operazioni difensive o, peggio ancora, la delocalizzazione della produzione al di fuori dell’Unione Europea, alla ricerca di contesti fiscali più favorevoli. Questo andrebbe in netta controtendenza rispetto agli sforzi dell’UE di rafforzare la propria base industriale e la propria autonomia strategica.

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Colpiti Manifattura, Energia, Costruzioni e Servizi Finanziari

L’analisi di Unimpresa ha anche identificato i settori economici che sarebbero maggiormente colpiti da questa nuova tassa, delineando un impatto diversificato ma con alcune concentrazioni preoccupanti. L’onere maggiore ricadrebbe inequivocabilmente sulla manifattura. Questo settore, che in Italia rappresenta circa il 35% dell’industria, è il cuore pulsante dell’economia del Paese, noto per la sua qualità e la sua capacità di esportazione. Le imprese manifatturiere, spesso caratterizzate da ingenti investimenti in macchinari e ricerca e sviluppo, e talvolta da margini di profitto non elevatissimi a fronte di volumi di produzione considerevoli, si troverebbero a fronteggiare un aumento significativo dei costi. Questo potrebbe minare la loro competitività sia sul mercato interno che, e soprattutto, su quello internazionale.

A seguire, con un impatto stimato al 15%, vi sarebbero le imprese energetiche e utilities. Questi settori, cruciali per il funzionamento dell’economia e della società, operano spesso con strutture di costo fisse elevate e investimenti a lungo termine. Un’ulteriore tassa sul fatturato potrebbe tradursi in un aumento dei costi per i consumatori finali, o in una riduzione degli investimenti necessari per la transizione energetica e il mantenimento delle infrastrutture.

Le costruzioni e i servizi finanziari si posizionano al terzo posto, ciascuno con un impatto stimato del 10%. Il settore delle costruzioni, già soggetto a fluttuazioni cicliche e a margini talvolta compressi, potrebbe vedere un ulteriore freno alla ripresa. I servizi finanziari, invece, pur essendo spesso caratterizzati da elevati ricavi, potrebbero comunque subire una contrazione della loro capacità di generare utili e di finanziare l’economia reale.

Lombardia super esposta

L’impatto della tassa non sarebbe uniforme sul territorio nazionale, ma si concentrerebbe in alcune aree ad alta densità economica. L’analisi di Unimpresa ha evidenziato che la Lombardia è la regione più esposta, ospitando ben il 32% delle società interessate dalla nuova imposta. Questa concentrazione non sorprende, dato il ruolo preminente della Lombardia come motore economico d’Italia, con un’elevata presenza di grandi imprese nei settori manifatturiero, finanziario e dei servizi.

Una stangata fiscale che colpisca in modo sproporzionato le aziende lombarde avrebbe ripercussioni significative sull’intera economia nazionale, dato il contributo fondamentale della regione al PIL italiano. L’allontanamento di grandi realtà produttive o la riduzione degli investimenti in Lombardia si tradurrebbero in un rallentamento della crescita a livello nazionale e in una perdita di opportunità occupazionali.

La pressione fiscale in Italia è già forte

Le preoccupazioni di Unimpresa sono amplificate dal contesto fiscale italiano, già caratterizzato da una delle pressioni fiscali più alte d’Europa. Paolo Longobardi ha ribadito che “l’Italia deve già fronteggiare una pressione fiscale complessiva elevata (oltre il 43% del PIL) e non può permettersi altri oneri sulle aziende più grandi e dinamiche.” Questo è un punto cruciale. Le imprese italiane, in particolare quelle di maggiori dimensioni che spesso operano su scala internazionale, già sopportano un carico fiscale significativo tra imposte dirette, indirette e contributi sociali.

Aggiungere un’ulteriore tassa sul fatturato, senza considerare la redditività effettiva, rischia di rendere il sistema fiscale italiano ancora meno competitivo e di penalizzare proprio quelle aziende che rappresentano il volano dell’economia, quelle che generano innovazione, posti di lavoro e ricchezza. L’obiettivo dovrebbe essere, al contrario, quello di alleggerire il carico fiscale sulle imprese per incentivare gli investimenti e la crescita.

La denuncia finale di Longobardi è un monito chiaro: “Come concepita, la tassa UE rischia solo di allontanare le grandi realtà produttive dal continente.” Questa è la preoccupazione strategica di fondo. In un’economia globale sempre più interconnessa, le imprese hanno la possibilità di scegliere dove investire e dove localizzare la propria produzione. Se l’Unione Europea dovesse imporre un onere fiscale ritenuto eccessivo o iniquo, le grandi aziende potrebbero essere spinte a riconsiderare la loro presenza sul continente, optando per paesi con regimi fiscali più favorevoli e meno onerosi.

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Questo fenomeno di “delocalizzazione fiscale” o “fuga di capitali” non è solo un rischio teorico, ma una realtà che l’UE ha già affrontato in passato in altri contesti. Se le aziende più grandi e dinamiche dovessero abbandonare l’Europa, si verificherebbe una perdita non solo in termini di gettito fiscale, ma anche di posti di lavoro, innovazione, ricerca e sviluppo, e capacità produttiva. L’Europa perderebbe una parte della sua “massa critica” industriale e della sua capacità di competere sui mercati globali.



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