Le società erano di carta, i bilanci anche. Ma i soldi, quelli erano veri: milioni di euro provenienti dai fondi europei per la transizione digitale e l’internazionalizzazione delle imprese, finiti nelle mani sbagliate. La procura europea di Torino, guidata dal magistrato Stefano Castellani, e la guardia di finanza di Biella hanno messo in piedi un’inchiesta che coinvolge 35 persone e 16 società sparse in tutta Italia. Nei giorni scorsi sono scattate le perquisizioni. Il gip di Bologna ha firmato un maxi sequestro da 3,3 milioni di euro. L’accusa è pesante: associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata ai danni dello Stato e dell’Unione europea, falso in bilancio e frode fiscale. Il meccanismo era semplice quanto collaudato: società create ad hoc, intestate a prestanome ignari, bilanci alterati e richieste di finanziamenti nell’ambito del Piano nazionale di ripresa e resilienza. I fondi arrivavano, spesso erogati da enti pubblici come Simest o Mediocredito Centrale, e poi sparivano. Al centro dell’indagine, il titolare di un Caf con sede a Bologna: secondo gli inquirenti, sarebbe uno dei promotori del sistema. Attorno a lui, una rete di fiscalisti, intermediari e dipendenti di banca, che avrebbero contribuito a dare credibilità alle società fittizie. I bilanci, truccati a tavolino, venivano usati per ottenere contributi tra i 200 e i 300 mila euro. La metà veniva erogata subito, sulla base della documentazione falsa. L’altra metà, teoricamente legata alla rendicontazione dei lavori — mai effettuati — non veniva nemmeno richiesta: le società venivano abbandonate o fatte sparire, insieme ai soldi. Il punto di partenza dell’indagine è un altro procedimento, da cui è emerso il disegno di una struttura più ampia. Un sistema che puntava a drenare risorse pubbliche, travestendo frodi da iniziative imprenditoriali, in nome della ripresa post-pandemica. Ma l’unica cosa che riprendeva, in quel caso, era la truffa.
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