Il 30 giugno scorso la Relatrice Speciale sui diritti umani nei Territori Occupati Francesca Albanese ha presentato un dettagliato rapporto sull’occupazione che costituisce un durissimo atto d’accusa verso Israele. Già il titolo lo fa intuire: “Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio”. Si indica la connessione fra le pratiche coloniali di occupazione illegale che caratterizzano tale scenario con gli sbocchi repressivi e vessatori, fino all’estremo limite della pulizia etnica e del genocidio che vediamo oggi. Il testo non si limita ad una burocratica rassegna dei diritti violati da parte dello Stato ebraico, ma denuncia i nomi delle aziende colluse con esso. Come si dice nella premessa, “le imprese coloniali e i genocidi ad esse associati sono stati storicamente guidati e resi possibili dal settore aziendale”; tanto più nel caso di Israele, Stato fortemente integrato con l’economia mondiale ed occidentale in particolare.
Una sezione del Rapporto è specificamente rivolta al settore della finanza, individuando uno dei problemi principali nell’acquisto di titoli di Stato israeliani, il che significa prestare soldi allo Stato ebraico. Come abbiamo argomentato anche su queste pagine, la situazione di guerra sta portando un sostanzioso aumento delle spese militari che spinge Tel Aviv verso un abnorme deficit nelle finanze pubbliche, per compensare il quale occorre trovare prestiti all’estero, ed in questo contesto in cui la reputazione del paese è particolarmente logorata gli investitori senza troppo pelo sullo stomaco risultano particolarmente prezioni. I primi che vengono citati sono le due grandi banche d’affari BNP Paribas e Berclays. Poi si tirano in ballo i grandi fondi di gestione patrimoniale, BlackRock e Vanguard, nonché Pimco, la succursale della compagnia di assicurazioni tedesca Allianz. I due giganti nordamericani vengono menzionati non soltanto in merito ai bond di Stato, ma come investitori e detentori di azioni di società direttamente fortemente compromesse con le politiche israeliane; si fanno i nomi di Palantir (il cui padrone è, com’è noto, fra i più stretti alleati di Trump), Microsoft, Amazon.com, Alphabet, IBM, Lockheed Martin, Caterpillar e Chevron. Anche le società globali di assicurazione sono coinvolte: la tedesca Allianz e la francese Axa, che assicurando le società sul campo ne riduce il rischio di operatività (essere coinvolti in un genocidio ha diversi rischi commerciali).
Un altro gruppo di soggetti individuato sono i fondi pensione e fondi sovrani. Si citano il Fondo Pensione Governativo Norvegese che dopo il 7 ottobre 2023 ha aumentato i suoi investimenti in aziende israeliane e la Caisse de Dépôt et Placement du Québec, un ente che gestisce 328 miliardi $ a favore di sei milioni di pensionati canadesi.
Una questione di fondo che il Rapporto rammenta brevemente è che gli investimenti in dinamiche repressive o addirittura genocidiarie dovrebbe essere contrari ad ogni tipo di criterio etico adottabile come standard di base. Da diversi anni, infatti, gli investitori amano ammantare i loro affari di un’aura di rispettabilità morale sulla base di codici etici. I cosiddetti criteri ESG (acronimo di “environmental, social, and corporate governance”: ambiente, sociale e goverance) sono diventati elemento immancabile nei vari brand che si volevano rappresentare in una luce positiva, quasi a controbilanciare la cattiva nomea acquisita dalla finanza. Oggi appaiono contestati da destra da una parte (il trumpismo li vede come un futile buonismo) ma in piena crisi di coerenza: con l’annuncio di nuovi investimenti per rimilitarizzare l’Europa diversi fondi hanno frettolosamente accantonato tali criteri per gettarsi nel nuovo banchetto. Secondo il capo della sezione ricerca sugli investimenti sostenibili della azienda finanziaria Morningstar, dal 2022 i fondi Esg che investono nel militare sono in crescita: circa il 43% dei fondi azionari europei ESG ora detiene una certa esposizione nel comparto difesa, riducendo il divario con i fondi non-ESG, che hanno un’esposizione del 56%. Se i fondi sostenibili possono investire nel riarmo del continente è dura spiegare agli investitori perché non potrebbero fare lo stesso in Israele. Infatti l’hanno già fatto.
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