i giovani industriali puntano all’estero


Fuga di cervelli, di braccia e di imprenditori.

Ad accendere un faro sulla questione è stata Maria Anghileri, presidente dei giovani di Confindustria. All’ultimo Convegno annuale di Rapallo ha tuonato: «Noi vogliamo restare qui, metteteci in condizione di restare e di innovare». Ammettendo che tra i suoi colleghi «rischia di prevalere la libertà di andarsene». Quindi ha richiamato le istituzioni e ha aggiunto che senza politiche nazionali ed europee destinate a incentivare «la natalità, l’istruzione e l’innovazione», «continueremo a regalare ai nostri concorrenti collaboratori e nuovi imprenditori che poi costruiscono le proprie famiglie altrove». Cioè all’estero. Sì, perché un pezzo sempre più rilevante nella fuga di cervelli dall’Italia riguarda proprio i nostri imprenditori under35.

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LA VOGLIA DI RISCHIARE
L’Istat ha calcolato che nell’ultimo decennio il nostro Paese sta vivendo una nuova emigrazione, con numeri e ritmi ormai non diversi da quelli registrati negli anni Settanta. Hanno abbandonato l’Italia oltre 1,2 milioni di persone. Secondo la fondazione Nord Est circa la metà (550mila), quando sono partiti, avevano tra i 18 e i 35 anni. E tra questi 1.860 sono giovani imprenditori.

Luca Paolazzi, coordinatore del gruppo Cnel sull’attrattività dell’Italia per i giovani, ha studiato il fenomeno e non fatica a tracciare un identikit di questi expat: «Sono persone con un bagaglio culturale più forte, con più coraggio, con più voglia di rischiare. Che a ben guardare sono tutti valori imprenditoriali». Sulle motivazioni alla base di queste scelte, l’economista – in passato a capo dell’ufficio studi di Confindustria e direttore scientifico della Fondazione Nord Est – aggiunge: «Le condizioni di lavoro all’estero in molti casi sono migliori. Ma a spingere questi imprenditori ad andare fuori non sono, o non sono soltanto le riduzioni di natura fiscale, i minori oneri sociali o gli incentivi per insediare laboratori e uffici. All’estero sono considerati a tutti gli effetti imprenditori, portatori di innovazione e creatori di valore, non manovalanza che, vista l’età, deve fare a tutti i costi la gavetta. Come invece avviene in Italia. Non è un caso che, come si evince da uno studio della nostra Fondazione Nord Est, circa due terzi del campione intervistato definiscano “improbabile” un loro ritorno a casa».

Al momento non valuta il rientro neppure Floris Lucio Panico, classe ’87, ingegnere che dopo laurea e master a Milano ed esperienze di tirocinio e lavoro a Taiwan e a Londra, opera dal 2021 in Vietnam. «Sono arrivato ad Hanoi per guidare la divisione digitale in un’importante azienda locale di software. Parallelamente ho fondato una mia società di consulenza per aiutare le aziende che vogliono rifornirsi qui, nelle loro attività di supply chain». Panico ha aperto un ufficio pure a Milano, ma anche per motivi familiari vede il suo futuro prossimo saldamente in Asia. «C’è sempre stata in me la voglia di uscire dall’Italia. Mi sono guardato intorno e ho scelto il Vietnam perché è un po’ l’underdog di quest’area. Il suo obiettivo di crescita per il 2025 è dell’8 per cento, da noi è dello 0,7. Sempre qui posso mantenere due stipendi, quello di manager e quello di imprenditore, in Italia sarebbe vietato».

I NUMERI
Circa duemila imprenditori in fuga possono sembrare sempre pochi rispetto ai numeri generali di questa nuova emigrazione. Ma per capire l’impatto sul sistema Paese basta ricordare quanto ha stimato l’università Liuc in uno studio coordinato dalla rettrice Anna Gervasoni: ogni anno lo Stato vede letteralmente evaporare 3 miliardi di euro, spesi per formare, dall’asilo alle specializzazioni post universitarie, i giovani che se ne sono andati all’estero. Tre miliardi, un punto e mezzo del nostro Pil, che finiscono per incentivare la crescita dei nostri diretti concorrenti. Senza dimenticare – in questo lunghissimo cahier de doléances – il mancato gettito fiscale generato dalle aziende in fuga, le assunzioni che si sarebbero potute realizzare, lo sviluppo tecnologico, le esportazioni di beni e servizi fino al conseguente apporto al Pil. Perché quando va via un’azienda, non c’è soltanto un problema di competenze che si trasferiscono fuori da confini patri: si perdono soprattutto le idee di business, che oggi sono la migliore benzina per resistere e crescere nella competizione globale. Non a caso la Banca d’Italia qualche anno fa ha calcolato che nei territori dove c’è maggiore immigrazione, la natalità imprenditoriale cala in media del 5 per cento.

LE STORIE
Ci sono tante storie di successo tra i giovani imprenditori expat. A Miami Matteo Fraschetti ha lanciato Eight Sleep, una coperta biometrica che si installa su qualsiasi materasso e riesce a tracciare la qualità del sonno, il battito cardiaco e la respirazione, ma può anche refrigerare e riscaldare il letto. A Londra Francesco Simoneschi e Luca Martinetti hanno fondato TrueLayer, una piattaforma di pagamenti elettronici basata sull’open banking, cioè sulla condivisioni di dati tra i diversi istituti, destinata ad assistere nelle loro transazioni le stesse banche, le startup fintech, le app di gestione patrimoniale, i marketplace e le piattaforme di gioco. Ad Amsterdam, invece, è nata Wonderflow: Roberto Osti, Giovanni Gaglione e Michele Ruini hanno ideato una soluzione di customer analytics, che estrae informazioni utili dai feedback dei consumatori e supporta le aziende in tutte le scelte per innovare i prodotti o sviluppare attività di customer experience e marketing strategico.

C’è quindi un’emigrazione imprenditoriale che spazia tra la finanza e l’information technology, senza dimenticare la meccanica, l’alimentare e il turismo o la ristorazione. Negli anni scorsi i giovani imprenditori guardavano soprattutto ai Paesi della Ue e agli Stati Uniti, ma adesso il loro raggio si sta allargando. Racconta Federico Vasoli, avvocato che vive a Singapore e aiuta le aziende che vogliono investire all’estero: «Le mete preferite in questa fase restano la Svizzera per una questione linguistica e prossimità geografica o Dubai perché è molto semplice insediarsi. In Asia servono capitali più alti per partire, mentre c’è ancora molto interesse per la Gran Bretagna nonostante la Brexit. Si attende il nuovo programma fiscale in Portogallo, ma la tassazione vantaggiosa sui redditi rende attraente la Spagna. Poi c’è Malta, scelta come sede legale da molte società di giochi. Ma da quando è diventata più “compliant” dal punto di vista fiscale è anche molto più cara».





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