Se pensiamo a quale possa essere il tratto distintivo dell’economia italiana, risulta agevole pensare a quel fitto reticolo di piccole imprese di cui si compongono i numerosi distretti industriali esistenti nel paese. Le piccole imprese hanno consentito alla nostra economia di affrontare le congiunture più sfavorevoli grazie alla proverbiale operosità di una generazione irripetibile che ha saputo sfruttare condizioni irripetibili.
Sino alla fine degli anni Ottanta, il nostro paese ha macinato profitti in modo poderoso consentendo a molti operai di diventare imprenditori grazie alla conoscenza delle tecniche di produzione e di distribuzione vigenti in un capitalismo elementare, ancora lontano dalle insidie del mercato globale e delle nuove tecnologie. Per questa ragione, in molti settori produttivi abbiamo assistito all’aumento esponenziale del numero di imprese.
Si è trattato di una crescita spontanea che la politica ha incoraggiato “all’italiana”, cioè, senza alcuna programmazione e con una buona dose di tolleranza fiscale. Prima dell’avvento dell’euro, il nostro sistema produttivo presentava le seguenti caratteristiche: tre holding pubbliche (Iri, Eni, Efim) con una miriade di imprese sparse su tutto il territorio nazionale; poche grandi imprese, prevalentemente a struttura familiare; un numero ragguardevole di piccole e medie imprese che avevano conferito al capitalismo italiano una struttura “molecolare”. La globalizzazione, l’avvento dell’euro, la fine delle svalutazioni competitive, hanno determinato nel corso degli anni un drastico ridimensionamento di questo comparto che negli ultimi venti anni si è aggravato a causa dell’invecchiamento della popolazione e del mancato ricambio generazionale.
In proposito, risulta paradigmatica la dichiarazione del presidente dell’Istat, Francesco Maria Chelli, secondo il quale “il pensionamento del titolare ha spesso determinato la chiusura dell’attività”. La classe dirigente italiana ha colpevolmente sottovalutato le gravi implicazioni di questi fattori che hanno concorso a determinare il deficit di competitività di molte imprese che non è solo imputabile alla mancanza di investimenti, come è stato spesso raccontato. L’invecchiamento della popolazione rappresenta una conquista da preservare rafforzando lo Stato sociale, rimodulandone le modalità di intervento, e non già smantellandolo, come è stato fatto finora. Il Welfare rappresenta una risorsa e, come tale, non può essere visto solo come un costo. La verità è che traslare al settore privato la somministrazione di servizi essenziali per la collettività, consente una gestione più semplice del rapporto tra strutture, lobby e politica. Dopo Tangentopoli è stata confezionata una colossale mistificazione con la quale si è cercato di persuadere il cittadino che “privato è bello”. In quest’ottica, le inchieste di “Mani pulite” sono state strumentalizzate per celebrare il mito del mercato e per screditare il settore pubblico additandolo come una sentina parassitaria.
Oggi abbiamo scoperto cosa si nascondeva dietro questa falsa ideologia mercatista: affarismo, corruttela, sordide combine tra magliari capaci di fare profitti sulla pelle dell’ignaro cittadino. Pertanto, non esiste alcuna visione ideologica in questa abietta fenomenologia del denaro facile: c’è solo la volontà di piegare lo Stato e il mercato, alla bisogna, a interessi di camarille fameliche e senza morale. Per quanto concerne il mancato ricambio generazionale, a cui abbiamo fatto riferimento, ci saranno occasioni per approfondire un tema che risulta indigesto alla classe politica per le gravi responsabilità che hanno causato, negli ultimi cinque anni, la fuga all’estero di 495 mila italiani, in gran parte diplomati e laureati.
Per ora, ci basti sapere che parlare sempre e solo di immigrati è un espediente che consente di ignorare le partenze dei nostri ragazzi e, soprattutto, le cause che le hanno determinate: i salari da fame e la svalutazione del titolo di studio. Si tratta di temi che la politica cerca accuratamente di eludere per non sentirsi obbligata a rispondere: come diceva Longanesi, “quando suona il campanello della loro coscienza, fingono di non essere in casa”.
Ma noi continueremo a suonare quel campanello.
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