quelle soluzioni a portata di mano di Europa e Italia


Che cosa può logicamente impedire di emettere un titolo di debito comune unico europeo che costa meno e attira molti più investimenti? Quale miopia politica e egoismo di sorta in piena tempesta globale, di origine militare o trumpiano-daziaria, possono consentire di rinunciare con tanta leggerezza a 150 miliardi all’anno in più di investimenti che permettono di fare un aumento del prodotto interno lordo europeo di un punto e mezzo? Chi e che cosa operano perché ciò non avvenga riuscendo pure a nascondere che, se questi 150 miliardi di maggiori investimenti li mettessimo sull’innovazione, si potrebbe addirittura arrivare fino a 4,5 punti di Pil di maggiore crescita cioè, tre volte di più? Ci si rende almeno conto di quanta nuova occupazione si determinerebbe e come ciò aumenterebbe in modo sano il potere di acquisto dei salari netti? Che la conseguenza sarebbe la capacità di mantenere e attrarre talenti invece di piangersi addosso, alimentare ricorrenti polemiche politico-ideologiche o invocare sempre una mano pubblica più o meno assistenziale?

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L’Europa ha una posizione patrimoniale sull’estero lorda molto rilevante e quella netta è positiva: lo si deve in grandissima parte a Germania e Italia, non a altri. Partendo da questa situazione perché non diventiamo noi adulti e facciamo quello che dobbiamo fare invece di dare i nostri capitali agli americani che si lamentano, crescono, attraggono, vanno in disavanzo e ora rompono pure a noi europei con dazi e altre amenità che, per fortuna, cominciano a fare seriamente del male anche a loro?

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L’economia italiana va meglio delle altre grandi economie europee, le agenzie di rating e gli stessi mercati se ne sono accorti, meriteremmo che se ne accorgessero ancora di più, ma che cosa si deve fare perché sparisca dal dibattito pubblico italiano almeno quel tono disfattista così lontano dalla realtà? Un disfattismo che continua a ignorare che sulla finanza pubblica siamo i primi a essere tornati in avanzo primario, che stiamo stabilizzando il debito e che il settore privato ha funzionato e funziona se no non avremmo potuto mai avere la maggiore crescita di Pil e occupazione con il Sud in testa.

A questo punto, invece di dividerci in dispute di ogni tipo quasi sempre strumentali, dimostriamo di avere coraggio e visione da sistema Paese e facciamo ulteriori riforme nella capacità di trasferire tecnologia e fare innovazione. Questa è la prima delle due grandi sfide che l’Italia tutta ha davanti a sé. L’altra è la capacità di attrazione di immigrazione di qualità e la visione non predatoria del piano Mattei in Africa che sono un tutt’uno.

Prima grande sfida. Sugli investimenti in innovazione le imprese italiane sono in prima fila in Europa e la flessibilità che ci permette di vincere sui mercati globali è frutto anche di questa spinta già capitalizzata. Ora bisogna moltiplicarla semplicemente garantendo il massimo di automatismo nella incentivazione. Sulla capacità di fare innovazione bisogna partire, come scelta strategica geopolitica e geoeconomica, dagli atenei di maggiore qualità del Mezzogiorno, che sono a Napoli, Bari, Cosenza e Catania, aumentando almeno la spesa dall’1% del Pil all’1,3% che è il valore medio europeo. Se mettiamo da parte i luoghi comuni e guardiamo in faccia la realtà oggi nel mondo il brand Napoli e del Sud, come dell’Italia intera, tirano alla grande. C’è la fila di talenti che vorrebbero rientrare a casa o anche di chi non italiano sceglie il nostro Paese come luogo ideale di vita e di ricerca. Il fenomeno è già in atto più di quanto emerga dalle rilevazioni statistiche ufficiali che arrivano sempre dopo, ma non possiamo perdere questa occasione storica perché qualche corporazione, sono sempre le stesse, continua a mangiare le risorse che servono per attrarre i capitali del futuro, umano e produttivo, garantendo loro le migliori condizioni di crescita professionale e di soddisfazione personale. Se penso alla riforma della zona economica speciale unica, al modello Caivano, e alla riforma della macchina fiscale degli investimenti, mi accorgo che molto è stato fatto e che con una bella spinta riformistica finale si può davvero sparigliare nell’arena della competizione globale.

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Seconda sfida. Sull’immigrazione, forse, la questione va posta in modo diverso, partendo dal dato demografico. Se continuiamo a pensare che chi arriva dal resto del mondo viene a “rubare” i nostri posti di lavoro, allora continuiamo a farci del male, ma se invece prendiamo atto che in Italia turismo e costruzioni non trovano 75 mila lavoratori, che non ci sono medici e infermieri per i pronti soccorso, e che gli indici demografici delineano a situazione invariata una perdita di prodotto pro capite dell’8% e che, quindi, devi pagare tutto ciò con una così rilevante quota in meno del tuo reddito, allora probabilmente le cose cambiano e diventa interesse di tutti gestire flussi controllati di nuovi ingressi il più possibile specializzati e mirati. La crescita del Pil spagnolo degli ultimi anni è frutto solo di questa scelta favorita peraltro dalla comunanza della lingua. Parliamo sempre di un Paese che ha il doppio della nostra disoccupazione e un pil pro capite significativamente più basso del nostro.

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Ciò non toglie che lo stesso boom americano, fino alla imprevedibilità assoluta di questi giorni, è frutto sia pure in parte anche di un fenomeno altrettanto rilevante di immigrazioni. La scelta italiana di avere un rapporto privilegiato e non predatorio con l’Africa e il Sud del mondo è figlio delle grandi intuizioni di una politica che comprende quanto oggi, soprattutto in economia, la politica estera sia politica interna. Anche questo dato va valorizzato rendendo il piano Mattei sempre più europeo e internazionale e ponendo così le condizioni perché l’Europa esca dalle reticenze del passato e adotti il nuovo asse Sud-Nord come strategico nella sua politica estera degli affari. Anche qui, l’Italia, con il Mezzogiorno, è chiamata a svolgere un ruolo di capofila.





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