I referendum dell’8 e 9 giugno 2025: una guida ai cinque quesiti su lavoro e cittadinanza


Foto di Valentina Barbiero

I seggi saranno aperti domenica 8 giugno dalle ore 07:00 alle 23:00, e lunedì 9 giugno dalle ore 07:00 alle 15:00. Possono votare anche i fuori sede che ne hanno fatto richiesta entro il 5 maggio, i cittadini iscritti all’AIRE e chi si trova temporaneamente all’estero per lavoro, studio o salute se ha fatto domanda entro il 7 maggio.

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Ecco una panoramica riassuntiva di ciascuna proposta referendaria: di cosa si occupa la proposta, quali obiettivi avrebbe secondo i promotori, le ragioni di chi sostiene il sì e le ragioni di chi invece sostiene il no o preferisce astenersi.

Quesito 1 – Sui licenziamenti illegittimi

Il quesito chiede l’abrogazione della normativa introdotta con il Jobs Act (D.lgs. 23/2015) che, per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, limita il reintegro in caso di licenziamento illegittimo. Attualmente, questi lavoratori hanno diritto a un’indennità, ma non al ritorno sul posto di lavoro, salvo rari casi come discriminazione o nullità. Il referendum mira a ripristinare la possibilità di reintegro anche per questa categoria.

Perché votare sì

Secondo i promotori, il sistema vigente crea una diseguaglianza tra lavoratori “vecchi” e “nuovi” solo in base alla data di assunzione. Il reintegro, sempre secondo i promotori, amplierebbe le tutele contro licenziamenti ingiustificati e rafforzerebbe il principio di equità.

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Va anche considerato che se vincesse effettivamente il sì, la Legge Fornero tornerebbe ad applicarsi a tutti i rapporti di lavoro, riducendo il limite di indennizzo per licenziamenti ingiustificati a 24 mensilità. Infatti, ai rapporti di lavoro costituiti dopo il 7 marzo 2015 oggi si applica il limite di 36 mensilità, come previsto dal D.lgs. 23/2015.

Perché votare no o astenersi

Secondo i critici, questa proposta disincentiverebbe le assunzioni e incrementerebbe l’incertezza sui contratti di lavoro, dato che l’attuale indennizzo offre maggiore certezza giuridica e flessibilità per le imprese.

Quesito 2 – Sui licenziamenti e sulla relativa indennità nelle piccole imprese

Attualmente, nelle aziende con meno di 15 dipendenti, il risarcimento massimo per licenziamento illegittimo è pari a 6 mensilità. Il quesito propone di eliminare questo tetto, lasciando al giudice la valutazione dell’indennizzo caso per caso.

Perché votare sì

Secondo i promotori, eliminare il tetto massimo di 6 mensilità permetterebbe al giudice di valutare l’indennizzo caso per caso, tenendo conto della gravità del licenziamento e delle condizioni del lavoratore. Inoltre, sempre secondo i promotori, molti lavoratori di microimprese sono più esposti a licenziamenti arbitrari; questa modifica offrirebbe loro maggiore protezione.

Perché votare no o astenersi

Secondo i critici, se vincesse il sì, il giudice che ritenesse il licenziamento ingiustificato potrebbe condannare il piccolo imprenditore anche a un indennizzo ingente. In Italia oltre il 90% delle imprese ha meno di 10 dipendenti. La rimozione del tetto agli indennizzi nei licenziamenti illegittimi aumenterebbe quindi l’incertezza legale e finanziaria per i datori di lavoro. Ciò avrebbe ricadute negative sull’occupazione.

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Precisazioni

In questo articolo non ci si vuole sbilanciare a favore o contro alcuna proposta. Tuttavia, ci si sente in dovere di sottolineare come il problema alla base del dibattito su questo quesito sia la natura del tessuto produttivo del nostro Paese, caratterizzato dalla presenza di svariate microimprese. Questo è un problema che colpisce profondamente la produttività in Italia, e va riconosciuto a prescindere dalle opinioni su questo quesito referendario.

Quesito 3 – Sull’utilizzo dei contratti a termine

Il referendum propone di reintrodurre l’obbligo di causale fin dal primo contratto a termine, correggendo la norma contenuta in un altro dei decreti attuativi del Jobs Act (D.lgs. 81/2015). Attualmente, la legge consente contratti fino a 12 mesi senza causale; questa è infatti richiesta solo oltre il primo anno.

Perché votare sì

Reintrodurre l’obbligo fin dal primo contratto limiterebbe, secondo i promotori, l’uso improprio del lavoro temporaneo, contrastando la precarietà e incentivando quindi l’assunzione a tempo indeterminato. Oltretutto, ciò garantirebbe, sempre secondo i promotori, una minore ricattabilità.

Perché votare no o astenersi

Secondo i critici, ne trarrebbero beneficio gli avvocati, poiché il contenzioso giudiziale su questa materia tornerebbe a salire ai livelli molto elevati dei primi anni del secolo, ma non aumenterebbe il numero di lavoratori, poiché dal 2015 a oggi la quota dei contratti a termine sul totale dell’occupazione è rimasta stabile.

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Quesito 4 – Sull’esclusione della responsabilità solidale di committente, appaltante e subappaltante negli infortuni sul lavoro

Il quesito mira ad abrogare la norma che esclude la responsabilità del committente in caso di infortunio sul lavoro imputabile all’appaltatore. In tal modo, anche il committente diventerebbe corresponsabile per i danni subiti dai lavoratori impiegati tramite appalto o subappalto.

Perché votare sì

Estendere la responsabilità solidale aumenterebbe la tutela dei lavoratori e, secondo i promotori, incentiverebbe i committenti a vigilare maggiormente sulla sicurezza nei luoghi di lavoro lungo tutta la filiera.

Inoltre, anche se i tassi di infortuni sul lavoro italiani sono inferiori alla media europea, la gravità di questi, misurata in termini di decessi, è superiore. Nel 2022, infatti, l’Italia ha registrato un tasso standardizzato di 3,17 decessi ogni 100.000 lavoratori, superiore alla media europea di 2,23, collocando il nostro Paese all’ottavo posto tra i Paesi UE per tasso di mortalità sul lavoro (fonte: Pagella Politica).

Perché votare no o astenersi

Secondo i contrari, ciò aumenterebbe i costi e la burocrazia per le imprese committenti, anche in assenza di responsabilità diretta, disincentivando l’esternalizzazione e creando ulteriore contenzioso.

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C’è poi chi sostiene che, anche se questo quesito dovesse vincere, non cambierebbe granché concretamente: gli incidenti sul lavoro in Italia dipendono soprattutto da carenze strutturali nei controlli, come il numero insufficiente di ispettori rispetto all’enorme quantità di microimprese che caratterizzano il tessuto produttivo del Paese. Come detto prima, infatti, oltre il 90% delle imprese italiane ha meno di 10 dipendenti.

Precisazioni

Ancora una volta, è da sottolineare il fatto che il problema alla base del dibattito è il numero elevato di microimprese in Italia. Il problema degli incidenti e delle morti sul lavoro è dovuto principalmente alla mancanza di un numero sufficiente di ispettori e di ispezioni per ciascuna delle microimprese attive sul territorio nazionale.

Quesito 5 – Sulla richiesta di cittadinanza italiana

Il quesito propone di ridurre da 10 a 5 anni il periodo minimo di residenza legale continuativa richiesto per uno straniero che chiede la cittadinanza per naturalizzazione, mantenendo tutti gli altri requisiti (lingua, reddito, assenza di condanne).

Perché votare sì

Secondo i proponenti, 5 anni sono considerati sufficienti per valutare l’integrazione di una persona nella società. La riduzione del tempo favorirebbe l’inclusione di circa 2,3 milioni di residenti regolari, anche e soprattutto a beneficio dei loro figli minorenni. Tra questi residenti regolari, vi sono circa 914.000 studenti senza cittadinanza, molti dei quali nati in Italia.

Vi sono poi argomentazioni economico-demografiche, secondo le quali questa proposta permetterebbe di facilitare un rinnovamento e rafforzare il tessuto demografico attivo del Paese, che oggi ha uno dei tassi di natalità più bassi in Europa, contrastando l’invecchiamento della popolazione. La cittadinanza, oltretutto, favorirebbe la mobilità sociale e un maggiore accesso a professioni pubbliche o regolamentate, aumentando la produttività e l’occupazione qualificata.

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Inoltre, va sottolineato come l’Italia sia uno dei pochi Paesi europei a richiedere 10 anni di residenza per l’ottenimento della cittadinanza. Paesi come la Germania hanno recentemente ridotto questi requisiti. Dal 2024, infatti, in Germania la durata minima di soggiorno legale necessaria per la naturalizzazione è stata abbassata da 8 a 5 anni. Inoltre, la media di residenza richiesta per la cittadinanza nei Paesi UE è di circa 6 anni, inferiore ai 10 attualmente richiesti in Italia.

Perché votare no o astenersi

I critici sostengono che i 10 anni attuali garantiscono una valutazione più approfondita e responsabile. Temono che una riduzione eccessiva banalizzi l’acquisizione della cittadinanza e abbia impatti identitari e politici rilevanti.

C’è poi chi sostiene che in altri Paesi europei, come l’Austria, la Svizzera, la Spagna (10 anni residenza legale continuativa) e Slovenia (10 anni in totale, inclusi 5 di residenza legale continuativa prima della richiesta), il periodo minimo di residenza richiesto per ottenere la cittadinanza per naturalizzazione ordinaria è di 10 anni, perfettamente in linea con le richieste attuali in Italia. 



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