come conciliare economia, equità e sostenibilità


Come conciliare economia, equità e sostenibilità Nella foto: Miguel Coleta, Massimo Milletti, Vitaliano D’Angerio, Chiara Mio, Luciano Rova. [
Alessandro Holneider – Archivio Ufficio Stampa PAT]

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“Il nostro obiettivo è creare un futuro senza fumo – ha spiegato il direttore di PMI Miguel Coleta – e questo comporta una profonda trasformazione del nostro business”.  Per l’azienda di sigarette di maggior successo al mondo sembra un controsenso, ma il manager spiega come non sia più possibile ottenere salute economica senza una nuova visione in termini di sostenibilità. L’azienda sta dunque fortemente investendo in sviluppo scientifico (oltre 14 miliardi di dollari) proprio per creare prodotti innovativi, senza combustione ma soddisfacenti – tanto che in pochi anni sono arrivati a rappresentare il 40% dei ricavi dell’azienda – ma anche per formare le competenze del futuro e per recuperare l’80% delle materie prime presenti nei device, tra materiali plastici, metallici, batterie e circuiti. È però necessario, aggiunge, che le norme creino campi di gioco uniformi, che non soffochino ma favoriscano l’innovazione e la sostenibilità.

Enrico Giovannini ha precisato quanto la sostenibilità possa essere un vantaggio competitivo citando i dati Istat: le imprese che hanno investito in essa nel triennio 2017-2019, in quello successivo sono cresciute del 16,7%. Il costo che comporta va quindi considerato come un investimento, al pari di quello necessario per attuare la transizione digitale. Fondamentale mantenere la direzione perché, come dimostra il Rapporto primavera implementato con il supporto del prestigioso centro di ricerca Oxford Economics – in cui si analizzano i progressi e le sfide nel raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile – le scelte che faremo potranno determinare scenari tra loro molto diversi sia nel breve che nel lungo periodo: dalla “Net Zero Transformation”, che prevede una accelerazione della transizione con aumento del Pil, alla pericolosa transizione tardiva se non alla più preoccupante inazione. Ovviamente per seguire la strada più virtuosa servono politiche adeguate. E sul rischio legato alla eccessiva burocratizzazione delle pratiche evidenzia come le imprese che si sono già strutturate non accetteranno di tornare indietro. Bene, ovviamente, gli aggiustamenti, ma certamente non i cambi di rotta.

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Massimo Miletti si è concentrato invece sulle questioni di genere, offrendo un poco incoraggiante quadro  generale sul gender gap nelle figure apicali delle aziende, se si considera che su 320 grandi aziende analizzate, le donne executive rappresentano solo il 17% del totale (contro il 23% della Germania, il 24% del Belgio e il 32% della Francia) e sono addirittura solo il 6% nel ruolo di amministratore delegato. Ridotta in particolare, la posizione a capo del settore IT, dove si paga lo scotto di una ancora poco diffusa formazione Stem (solo il 17% ha una laurea in queste materie rispetto al 39% degli uomini). Più rappresentate nei ruoli di staff (risorse umane, legale, audit, sostenibilità). Uno squilibrio che emerge maggiormente in aziende quotate, che adottano pratiche meno virtuose rispetto alle non quotate. Gli ingredienti per cambiare la situazione sono dunque creare piani di successione in cui sia prevista almeno una donna, favorire le job rotations e le esperienze all’estero. In finale una riflessione sul management di oggi che, spiega dovrebbe evolversi. In questo senso secondo lui è necessario uno snellimento delle strutture e una conseguente maggiore tolleranza verso gli errori, così come un incremento del coraggio di decidere in autonomia, sapendo gestire gli eventuali dissensi e assumendo maggiori rischi.

Chiara Mio però ha avvertito che è fondamentale smettere di attuare azioni di CSR e cominciare piuttosto a lavorare su un modello “disruptive”. Possibile – ha chiesto – investire nella formazione femminile e poi non sfruttare questo prezioso capitale umano? Le aziende, ha aggiunto, si trovano a dover continuamente investire per abbattere dei gap creati dal contesto sociale. Una politica del “fa e disfa” che erode risorse per attuare un vero cambiamento, che è quello legato alla reale valorizzazione dei talenti. Talenti che stanno aumentando, ha precisato, anche nelle materie Stem, dove si assiste ad un interesse crescente e a ottime performance.

Un approccio seguito da Itas, come ha spiegato Luciano Rova, che vanta il 29% di donne dirigenti e congedi famigliari utilizzati al 40% da uomini, oltre a strumenti di reale supporto alla conciliazione famiglia-lavoro, come il nido aziendale. Un cambio di mentalità avvenuto nel tempo, visto che solo nel 2007 non vi erano donne alla dirigenza. La compagnia si distingue anche nella capacità di costruire proficui rapporti intergenerazionali che, come i relatori hanno ricordato, sono fondamentali per il processo di crescita delle aziende, in cui anche asset valoriali profondamente diversi possono diventare una risorsa.



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