Viaggio nella sanità (2). I tagli mascherati al servizio pubblico e la trappola del welfare aziendale dei fondi integrativi


A gennaio 2025 la rivista medica inglese The Lancet ha pubblicato un editoriale dal titolo The Italian health data system is broken (Il sistema dei dati sanitari italiano è a pezzi). Nell’editoriale si affrontano diversi mali della nostra sanità. Il primo è collegato al cosiddetto inverno demografico. Nel 2050 la popolazione italiana sarà diminuita dell’8% circa, mentre l’età salirà: si prevede che oltre il 35% degli italiani avrà più di 65 anni, mentre solo l’11,7% della popolazione sarà più giovane di 14 anni. Un paese di vecchi, insomma, che se non affronterà il problema con serie riforme si troverà presto a dover fronteggiare un grave stress dei sistemi sanitari e sociali.

Ma questa è solo la premessa: il sistema sanitario italiano, secondo l’articolo, soffre già di gravi malfunzionamenti dovuti a frammentazione, disparità tra Regioni, incomunicabilità dei dati relativi ai pazienti tra strutture sanitarie differenti, migrazione sanitaria, ricerca sanitaria in crisi, sanità digitale ancora non funzionante, e, sopra a tutto questo, una legge sull’autonomia differenziata che renderà la situazione ancora più problematica.

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Alcuni medici italiani hanno risposto all’editoriale, facendo distinguo e precisazioni, ma in generale auspicando che l’articolo del Lancet possa smuovere qualcosa.

Spesa sanitaria: i conti non tornano

Un punto che nell’editoriale non c’è ma che negli ultimi tempi è diventato un tormentone sulla stampa è quello del finanziamento della sanità in Italia. La spesa pubblica per la sanità è ai massimi storici, come dice il governo Meloni, o ai suoi minimi? La premier a febbraio scorso ha ribadito di aver “scelto di destinare alla sanità stanziamenti record, portando nel 2025 il Fondo sanitario nazionale a 136,5 miliardi di euro e ad una spesa pro-capite di 2.317 euro”. Una affermazione che ripete dal 2024, ad esempio a giugno di quell’anno diceva: «Questo è il governo che ha messo più soldi della sanità nella storia repubblicana: sono numeri non sono opinioni». L’opposizione, di contro, anche per bocca della segretaria del Pd Schlein, dice che il SSN è stato definanziato da questo governo. L’osservatorio Conti Pubblici Italiani dell’Università cattolica di Milano aveva già provato a fare chiarezza qualche mese fa. Vediamo cosa ne è emerso.

Quello a cui si riferisce Meloni è il finanziamento, ovvero le risorse del Fondo sanitario nazionale per il SSN. All’interno di questa voce però c’è una importante distinzione: quella tra risorse nominali e risorse reali. La premier Meloni parla di risorse in termini nominali. Ovvero prende in considerazione l’importo totale assegnato ai servizi sanitari senza tenere conto dell’inflazione o del potere d’acquisto e delle loro variazioni nel tempo. Il valore del finanziamento in termini reali, invece, tiene conto di questi elementi e riflette il potere d’acquisto effettivo della somma assegnata. Se leggiamo i dati in questa chiave cosa vediamo? Che mentre il finanziamento nominale è cresciuto un po’ ogni anno dal 2000 al 2024, tranne che nel 2013, e che il 2024, con 134 miliardi di euro, è effettivamente l’anno con la cifra più alta, in termini reali le cose cambiano e il finanziamento del 2024 risulta più basso di quello del 2022, ma anche di quello del 2019 e del 2010.

C’è poi da notare che di solito il finanziamento alla sanità viene quantificato in base al Pil di un Paese. La scelta non è casuale perché, al crescere del Pil, crescono anche le tasse che i cittadini versano e quindi dovrebbe crescere la spesa sanitaria che viene pagata con il gettito fiscale. Ed è anche una misura della priorità relativa assegnata alla sanità nell’ambito della finanza pubblica.

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Se guardiamo, allora, al finanziamento della sanità pubblica in percentuale sul Pil vediamo che dal 2000 al 2009 il finanziamento è cresciuto in modo costante passando dal 5,5 al 6,8%, poi c’è stata la crisi economica che ha portato a una riduzione del finanziamento anche in termini nominali. Dopo una lieve risalita che ha fatto raggiungere il 6,7% del Pil nel 2014, la spesa pubblica, pur aumentando in termini nominali di circa un miliardo di euro l’anno, si è ridotta in termini percentuali fino al 6,4% del Pil nel 2019. Alla vigilia della pandemia, con la legge di bilancio per il 2020, il secondo governo Conte ritorna ad investire nel SSN passando da 1 a 2 miliardi di incremento del finanziamento. Con l’avvento della pandemia il finanziamento cresce ancora in corso d’anno di circa 6 miliardi di euro rispetto all’anno precedente, il che consente di raggiungere il 7,3 per cento del Pil, un aumento dovuto in verità anche alla consistente riduzione dell’attività economica e quindi del Pil.

Con l’arrivo del centrodestra al governo, il rapporto tra spesa pubblica e Pil è sceso al 6,2% nel 2023 (6,16% per la precisione, il minimo dal 2007). Gli stanziamenti previsti nella legge di bilancio per quell’anno erano ben al di sotto di quanto sarebbe stato necessario per compensare gli aumenti dei prezzi che si erano verificati nel periodo precedente. La vera differenza però è tra la spesa pubblica per la sanità in Italia e negli altri principali Paesi europei. In quello stesso anno la media dell’Unione europea è del 6,6%. Anche se i confronti internazionali sono difficili per le diversità dei sistemi sanitari, il nostro livello di spesa appare più basso: nel 2023 la Germania ha speso per la sanità pubblica il 10,1% del Pil, il Regno Unito l’8,9%, la Spagna il 7,2%; spendono meno di noi solo Repubblica Slovacca, Polonia, Portogallo, Estonia, Lituania, Ungheria, Lettonia e Grecia.

Il rapporto spesa sanitaria pubblica/Pil risale al 6,3% nel 2024 e 2025 e al previsto 6,4% nel 2026-2027. La stessa percentuale del 2019.

Il ricorso al privato (per chi può)

Ma la spesa sanitaria non è solo pubblica. Secondo il rapporto dell’Osservatorio GIMBE pubblicato a febbraio scorso e che fa riferimento ai dati prodotti dal Sistema dei conti della sanità dell’ISTAT, la spesa sanitaria totale nel 2023 è risultata pari a 176,1 miliardi di euro. Di questi 130,1 miliardi sono quelli da addebitarsi alla spesa pubblica, 40,6 miliardi alla spesa cosiddetta out-of-pocket, ovvero quella sostenuta direttamente dai cittadini, e 5,2 miliardi alla spesa intermediata da fondi integrativi e assicurazioni.

Sulla spesa pubblica si è detto, da notare che mentre nel 2011 la spesa sanitaria pro-capite dell’Italia era perfettamente allineata alla media dei paesi europei dell’area OCSE, nel 2023 ha registrato un gap di 697 dollari pro-capite.

La spesa out-of-pocket, nel periodo 2012-2022, contemporaneamente ai tagli al finanziamento pubblico, è aumentata complessivamente del 26,8%, con un incremento medio annuo del 2,5%. All’interno di questa spesa troviamo l’assistenza sanitaria comprese le cure odontoiatriche, la riabilitazione, i farmaci e altri apparecchi terapeutici e l’assistenza a lungo termine. Va detto però che gli oltre 40 miliardi di euro di spesa out-of-pocket includono prodotti e servizi che non migliorano gli esiti di salute. In particolare, secondo le stime del report, quasi il 40% della spesa out-of-pocket è a basso valore, ovvero non contribuisce a migliorare la salute delle persone. L’acquisto sarebbe indotto spesso da un consumismo sanitario, testimoniato dalle tante pubblicità non solo di farmaci ma anche di prestazioni professionali e di esami diagnostici offerti a pagamento. La spesa out-of-pocket, se incentivata dalle aziende, è però arginata dalla povertà. Nel 2023 circa 4,5 milioni di persone hanno rinunciato a visite o esami diagnostici, e per 2,5 milioni di queste i motivi economici sono stati la causa principale: un incremento di quasi 600.000 persone rispetto all’anno precedente.

E veniamo alla spesa intermediata che comprende fondi sanitari integrativi, polizze assicurative e altre forme di finanziamento collettivo. In sostanza si paga una assicurazione per ottenere dei servizi di tipo sanitario. La premessa da fare è che tutti gli esperti notano che questi fondi sono regolati da una normativa frammentata e incompleta. Comunque, nel periodo 2012-2023, la spesa intermediata ha registrato un incremento medio annuo del 5,6%, ovvero un +70,5% in 10 anni. In realtà la spesa è cresciuta in particolare dopo l’entrata in vigore del “Jobs Act”, nel 2014, soprattutto per la deducibilità delle polizze di “sanità integrativa”. Molti fondi sono entrati nei contratti collettivi di lavoro. Ad esempio nel 2017 l’assistenza sanitaria integrativa è entrata nel CCNL metalmeccanici con iscrizione obbligatoria al Fondo per tutti i lavoratori dipendenti delle aziende che applicano il CCNL.

Sulla base dei dati del Ministero della Salute, il numero di fondi integrativi è cresciuto costantemente negli ultimi anni: se ne contano 324 nel 2023, con un’erogazione complessiva nell’anno di 3,2 miliardi di euro per 16,2 milioni di iscritti. Quasi un quarto della popolazione italiana risulta quindi iscritto a un fondo sanitario. Naturalmente questo ha un costo per lo stato perché le aziende godono di esenzioni fiscali per il welfare aziendale e quindi le entrate per lo stato diminuiscono.

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Inoltre, i fondi che dovevano “integrare” le prestazioni del SSN, ovvero offrire prestazioni che il SSN non offre, come le cure odontoiatriche, in realtà spesso vendono le medesime prestazioni erogate dal SSN. Una “sostituzione” pagata dai cittadini attraverso i contributi ai fondi integrativi che, pur considerando la loro esenzione dal reddito imponibile, si aggiungono al prelievo fiscale che alimenta anche il SSN. In sostanza, l’assistenza sanitaria viene pagata due volte, ma i soldi tolti al pubblico attraverso il definanziamento di cui abbiamo detto vengono trasferiti ai privati.

D’altro lato le aziende, invece di aumentare gli stipendi dei lavoratori, forniscono welfare che però è defiscalizzato, il cui costo quindi invece che ricadere sulle aziende stesse ricade sulla comunità che paga le tasse. In sostanza, il welfare fiscale sembra soprattutto un sostegno al reddito di impresa più che ai lavoratori.
Ma quello che è più grave è che in questo modo si torna a riproporre il sistema delle mutue che vigeva prima della creazione del SSN. Ovvero, si profila il ritorno a una tutela sanitaria differenziata con maggiori garanzie per una parte della nostra società, cioè per chi ha un lavoro in alcuni settori produttivi. Un principio che era stato spazzato via dalla riforma del 1978 con la quale si era passati da uno stato assistenziale a uno stato di diritto in cui la salute diventa un diritto di tutti i cittadini e le prestazioni sanitarie vengono erogate a tutti i cittadini secondo i principi di universalità, uguaglianza ed equità.

La prima parte dell’inchiesta sulla sanità (qui il link) è stata pubblicata il 28 aprile



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