I sanitari che fanno ispezioni sui luoghi di lavoro? Pochi per garantire controlli: “Italia molto al di sotto della media Ue”


In Italia, con l’organico di tecnici della prevenzione nei luoghi di lavoro attualmente a disposizione, ci vorrebbero oltre 15 anni per completare una visita di controllo in ognuna delle imprese presenti sul territorio. A lanciare l’allarme sulla carenza di personale è la Fno Tsrm e Pstrp – la Federazione nazionale Ordini dei Tecnici sanitari di radiologia medica e delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione. Nel nostro Paese ci sono 2108 professionisti tecnico sanitari deputati alla funzione ispettiva nei luoghi di lavoro. Significa un operatore ogni 28mila abitanti – ben al di sotto dello standard europeo di uno ogni 10mila -, che si traduce in un tecnico ogni 1500 imprese. Un numero insufficiente che non permette un controllo efficace sul territorio. Per garantire una copertura adeguata, denuncia la Fno Tsrm e Pstrp, servirebbero oltre 3mila professionisti in più.

“È l’ora di prendere coscienza del fatto che, ogni giorno, all’interno di cantieri, negli impianti, nei laboratori, negli allevamenti e nei capannoni di logistica, si consumano vere e proprie tragedie, che prendono il nome di infortuni sul lavoro o malattie professionali”, dichiara Vincenzo Di Nucci, Presidente della Commissione di albo nazionale dei tecnici della prevenzione. La carenza di personale mette in crisi la capacità del sistema di garantire vigilanza e sicurezza nei luoghi di lavoro. Per raggiungere lo standard europeo servirebbero circa 3600 professionisti in più. Ma secondo la Commissione di albo, per garantire un’efficacia reale, ne occorrerebbero almeno altri 5900.

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“Senza un investimento strutturale e duraturo sul personale, la sicurezza sul lavoro rischia di restare solo un principio scritto sulla carta”, avverte Di Nucci, sottolineando come la via da seguire sia quella di aumentare i fondi dedicati alla prevenzione. Secondo l’Associazione internazionale di sicurezza sociale – di cui fanno parte anche Inail e Inps -, infatti, ogni euro dedicato alla prevenzione genera un risparmio di almeno tre euro in spese sanitarie e sociali. “Non dobbiamo considerarla un costo – spiega -, bensì un dovere, un atto di civiltà verso chi lavora, produce e contribuisce alla società. Finché non ci sarà un vero riconoscimento del ruolo di chi valuta il rischio dei dipendenti nelle imprese, continueremo a contare i morti. E non saranno vittime del caso, bensì dell’assenza di cultura, delle carenze strutturali e della miopia politica. Serve un cambio di passo. La salute del lavoratore è un diritto fondamentale, non una voce accessoria”, prosegue Di Nucci.

Per ridurre concretamente morti e infortuni sul lavoro, la Commissione di albo ritiene che sia necessario un intervento strutturale che, aumentando le risorse messe in campo, investa sia su i professionisti che su una riorganizzazione del sistema. I tecnici della prevenzione hanno una formazione universitaria specifica, con oltre 4500 ore di didattica e 1500 di tirocinio. Eppure, spiega Di Nucci, la prevenzione è ancora spesso affidata a figure non molto qualificate, che si formano con corsi di poche ore. Per questo la Commissione richiede che nel settore pubblico si assumano solo profili con lauree tecniche e sanitarie. Per quanto riguarda le imprese, invece, propone che la formazione dei Responsabili dei servizi di prevenzione e protezione sia verificata e riconducibile a standard scientifici. Anche l’aggiornamento degli Rls (Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza) dovrebbe avvenire solo in strutture pubbliche, per garantire qualità e indipendenza.

Infine, mancano strumenti concreti per attuare politiche preventive efficaci: il Sinp (Sistema informativo nazionale della prevenzione), seppur previsto dal 2008, è ancora inattivo. “Urge completarlo e renderlo operativo, per consentire l’analisi del rischio e per valutare l’efficacia delle azioni messe in campo”, commenta Di Nucci, che conclude: “Non basta la sola vigilanza, serve cultura. La prevenzione non si improvvisa e non si impone. È necessario costruirla con competenze scientifiche, presenza sul territorio e relazioni umane. È un’attività sanitaria a tutti gli effetti, e come tale va riconosciuta. Se davvero vogliamo cambiare rotta, serve un piano concreto di riconoscimento e potenziamento della nostra professione”.

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