Dati sull’occupazione, il grande bluff


Un milione di posti di lavoro in più. Più contratti a tempo indeterminato. Meno precarietà. Meno disoccupazione. Salari che crescono più dell’inflazione. Premier e ministri sbandierano i successi dell’esecutivo sull’occupazione in due anni di governo, dipingendo l’Italia come il Paese più sviluppato d’Europa.

Un Paese che cresce, va a gonfie vele, dove le persone trovano lavoro facilmente e soprattutto di qualità. L’ultimo atto di questa propaganda, il video pubblicato alla vigilia del Primo Maggio da Giorgia Meloni che ha celebrato la Festa dei lavoratori riepilogando i suoi trionfi. Ma è tutto vero? Che cosa ci sono dietro ai numeri snocciolati? Ci sono le persone, uomini e donne.

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Occupazione, quale record?

Partiamo dal numero degli occupati: abbiamo superato la soglia dei 24 milioni, a febbraio erano 24 milioni 300 mila, per la precisione. Numeri record, mai registrati. Se si guarda in questo calderone, però, si scopre che il 90 per cento sono lavoratori over 50.

Che cosa vuol dire? C’è certamente un aumento degli occupati, ma c’è anche una maggiore permanenza delle persone. Qualcuno lo chiama effetto Fornero: prima si andava in pensione a 62 anni, adesso a 65, 66, 67 anni. C’è più permanenza nel mercato che uscita. Quindi oltre ai nuovi ingressi, ci sono tanti che restano più a lungo perché vanno in pensione più tardi.

E questa è la questione principale, che fa il paio con quella demografica, della diminuzione della popolazione giovane: ci sarà sempre un minor numero di persone che entrano nel mercato e un maggior numero che permane, più di quanto accedeva 10 anni fa.

Anche il tasso di occupazione dice molte cose: il tasso medio generale è pari al 62,2 per cento, quello femminile al 53,3, quello giovanile (15-24 anni) al 44,9 per cento. Migliora, ma è tra più bassi in Europa, con marcate disparità di genere e regionali: lo certifica l’Eurostat. 

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Incertezza sul futuro

Sulle attivazioni dei rapporti di lavoro, il saldo è positivo, anche se c’è un rallentamento complessivo rispetto al 2023: si registravano 520 mila rapporti in più a dicembre 2023, 370 mila a dicembre 2024. Dentro questi numeri, la lettura: aumentano i rapporti a tempo indeterminato e diminuiscono i tempi determinati, che a novembre 2024 erano 150 mila in meno.

Per gli esperti si tratta di un’evidente incertezza rispetto alle prospettive del mercato. Traduzione: i contratti a termine vengono trasformati in indeterminati perché le aziende vogliono tenersi stretti i lavoratori, ma non investono nel futuro e quindi non ne attivano di nuovi.

C’è un altro fattore da tenere presente, quello delle competenze: le imprese vorrebbero lavoratori già belli e che formati, cercano profili specializzati e non sono disposte a formarli. Per questo l’esigenza dell’acquisizione delle competenze si sposta sul mondo dell’istruzione e della formazione, che le fornisce poco idonee o obsolete.

Qualità e precarietà

Poi c’è il capitolo della qualità dell’occupazione: come stanno le persone che rappresentano questi numeri? È presto detto: a crescere non è la manifattura ma il settore dei servizi, dentro il quale l’occupazione è precario, discontinuo, scarsamente intenso. Queste caratteristiche si traducono in salari bassi. Il nuovo lavoro quindi è per lo più precario e con compensi poco dignitosi.

Lo confermano studi e ricerche recenti. Per ultimo, il rapporto della Fondazione Di Vittorio a dieci anni dal Jobs Act “Precarietà e salari bassi”, secondo il quale più del 90 per cento dell’incremento complessivo degli occupati è imputabile al settore dei servizi, i contratti a termine e part time riguardano quasi il 30 per cento e colpiscono in modo particolare i giovani, le donne e i laureati. Dall’altro lato, l’aumento del numero di occupati si accompagna alla più lenta crescita delle ore lavorate totali.

Salari e inflazione

Alla precarizzazione del lavoro è legata la caduta dei salari. Sempre la Fondazione Di Vittorio afferma che tra il 2008 e il 2024 i salari reali medi in Italia sono diminuiti del 9 per cento, in Germania e Francia sono cresciuti del 14 e del 5. Secondo il rapporto Ocse Taxing wages il Belpaese si colloca al 23esimo posto sui 38 dell’organizzazione per salari netti. Secondo l’Eurostat, da noi è a rischio povertà più di un lavoratore su 10, una quota in crescita nel 2024 rispetto all’anno precedente (10,3 per cento contro 9,9).

E ancora: per l’Istat le retribuzioni contrattuali reali a marzo 2025, seppur in aumento rispetto all’anno precedente, risultano ancora inferiori di circa l’8 per cento rispetto a  gennaio 2021.

Questo significa che su potere d’acquisto e salari pesa ancora l’inflazione cumulata tra il 2021 e il 2024: nei quattro anni i prezzi sono cresciuti complessivamente del più 18,6 per cento, mentre le retribuzioni sono rimaste al palo. Lo stesso presidente della Repubblica Mattarella ha dichiarato: “Tante famiglie non reggono l’aumento del costo della vita. I salari insufficienti sono una grande questione per l’Italia”.

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Inattivi bloccati

Un altro dato negativo è l’aumento degli inattivi. A dicembre 2024 erano 12 milioni 400 mila, risultano in salita a febbraio 2025. Il tasso generale è al 33,4 per cento, e anche in questo caso dentro si trovano le disuguaglianze del mercato del lavoro: donne, giovani, Mezzogiorno. Le donne rappresentano il 42,4 per cento, i giovani (15-34 anni) il 49,1, il Sud e le isole il 43,9.

Gli unici strumenti messi in campo dal governo per fare fronte a questo fenomeno sono bonus e sgravi alle aziende, provvedimenti spot che non incidono sulle cause e non eliminano gli ostacoli: l’istruzione, la strumentazione, fattori culturali e sociali, infrastrutture, background migratori, carichi di famiglia e di cura per le donne.



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